Il libro di Moreno Montanari, Rinascere a questa vita, uscito per Moretti e Vitali, porta come sottotitolo, Perché la resilienza non basta. Vero. Il termine resilienza, abusato nel linguaggio psy, è un termine confusivo, che a tratti sembra voler dire “sopportazione”, portare un peso, il peso dell’altro; oppure “flessibilità”, come in quell’elastico che menziona ironicamente Lacan quando parla della “funzione debole dell’Ego”, una sorta di trasformazione in “teoria del rinforzo” che ha segnato la debacle della psicoanalisi dominante nel Nord-America negli anni del secondo dopoguerra.
Qualcuno ha parlato di plasticità neurale, richiamandosi agli studi neurologici sul fenomeno vicarianza -proposto da Kurt Goldstein, Aleksandr Lurjia e Oliver Sacks - attraverso l’osservazione empirica delle condotte dei loro pazienti.
Dovremmo forse parlare di plasticità relazionale e sociale. Ma qual è la differenza? In che cosa consiste questa differenza tra elasticità e plasticità? Se tiro un elastico, questo torna, se funziona, nella stessa posizione, una volta mollato. Se lavoro su una palla d’argilla, i segni che le ho impresso rimangono dentro la palla, sono innesti di desiderio, come ha insegnato la psicoanalista franco-tedesca Gisela Pankow.
Il senso della plasticità è dunque legato intimamente all’esperienza del soggetto. Moreno Montanari coglie questa esperienza, in questo libro, a partire dalla sua formazione come psicoanalista e come filosofo. Formazione (Bildung) che non si riduce al percorso accademico, e neppure al percorso terapeutico come analizzante - come egli ama definire il soggetto che frequenta le sedute terapeutiche – ma come soggetto vivente, come persona (amo provocare quella distinzione dogmatica tra “soggetto” e “persona” che alcuni psicoanalisti ancora propongono).
La vita di Moreno, un collega a me caro, con il quale ho avuto occasione di incontrarmi e dialogare più volte, ha le proprie singolarità, e credo che, tre quarti di questo libro - e non è il primo libro dell’autore che recensisco - si possa considerare una vera e propria autoanalisi. Si aggiunge ai suoi percorsi e ne dà senso. L’incipit del libro, il primo capitolo ripete il sottotitolo, “La resilienza non basta”, è questo: “La prima volta fu a diciannove anni, compiuti in ospedale, in terapia intensiva, per un’improvvisa e, allora incomprensibile, embolia polmonare.”
Il resto dei capitoli si sviluppa, a partire da eventi salienti successivi a questa prima rinascita; altri e altri ancora, fino a giungere alle contemporanee riflessioni sul covid, che anch’io ho analizzato in vari scritti e che richiamano la mia stessa esperienza.
Poi, piano piano, il testo scivola dallo stile autobiografico allo stile saggistico, mantenendo il tono della riflessione critica. Particolare interesse, ai mie occhi, assume il terzo capitolo: “L’altro panico”, ove si ricorda l’esperienza che, in più occasioni, io stesso ho attraversato e che, sulla scorta del mio confronto con Antonello Sciacchitano e Mario Galzigna è stata definita nei termini di “soggetto collettivo”. Montanari, pur non usando questo lemma, la definisce così: “… la prepotente esperienza del tutto (appunto Pan), come se gli abituali sistemi di difesa e differenziazione fossero andati in tilt” (p. 58).
Furono le mie sensazioni, raccontate in un saggio apparso per European Journal of Psychoanalysis, in un’altra lingua, l’inglese, poi in un’altra rivista, in francese, e solo successivamente tradotte nella mia lingua madre, perché quegli appunti di ricovero ospedaliero non venivano da me stesso, ma dall’altro, il “soggetto collettivo”, dal demos, oppure dal daimon, del tutto; di Pan.
È in quel terzo capitolo che Montanari menziona l’Unheimlich, tradotto in italiano con “perturbante”, ma che invero l’autore ridefinisce nei termini di: “… familiare (Heimlich) che era tenuto nascosto perché inquietante – come va tradotto Unheimlich – ma che un improvviso cambiamento del sistema di difese, che avrebbe dovuto mantenerlo nella terra del rimosso, fa irrompere prepotentemente alla coscienza.”.
È precisamente ciò che è accaduto più volte nella vita di Moreno, esperienza, ancor più che autobiografica, mitobiografica, come lui stesso ama definirla sulla scorta di uno dei suoi punti di riferimento: Ernst Bernard.
In questo testo però l’autore che, a mio avviso, influenza di più l’opera, proprio per lo stile - la presenza del soggetto dentro la scrittura - è Elvio Fachinelli, in particolare quell’opera di Fachinelli che segna anche la fine: La mente estatica. Benché Fachinelli si sia sempre appassionato, sulla scorta di Sandor Ferenczi, del corpo, e del rapporto tra la vita e la morte, La mente estatica è un vero proprio testo che segna la fine. Un testo in cui, più di ogni altro testo dell’autore, si possono leggere i segni anticipatori della fine. Una sorta di testamento letterario, un po’ come le frammentarie lezioni di Michel Foucault al Collège de France nell’anno 1984, o Perdonare di Jacques Derrida.
In una differenziazione alternativa alla psicoanalisi più classica e rigorosa, Montanari propone questa considerazione di Fachinelli: “… Questa situazione in cui l’io è alla lettera fuori di sé, comporta variabili modificazioni delle categorie di tempo, spazio e causalità e, pur essendo preceduta da timori e da angosce, ha il senso di una gioia per lo più ritenuta indicibile.”.
Nel libro Rinascere alla vita, necessario, dentro il panorama di un’editoria che produce una enorme quantità di “cose” orribili e una minuscola porzione di opere pregevoli, come questa, mi appresto a descrivere anche una differenza che mi preme sottolineare. Montanari menziona nel testo il Nome-di-Heidegger. Tuttavia il suo Heidegger somiglia al mio Blanchot. Non voglio negare l’importanza del pensiero di Heidegger, al di là della sua biografia. Invero quando Heidegger sostiene - nell’incipit di Che cosa significa pensare? - che dobbiamo imparare a pensare considerando che: “Non appena ci impegniamo in questo imparare, abbiamo già anche confessato che non siamo capaci di pensare” (p. 37), svolge un’interessante osservazione filosofica, che rimane nell’ambito del “pensiero”.
Ciò segna la differenza Heidegger/Blanchot.
Blanchot svolge pratica letteraria – mi riferisco soprattutto al testo Lo spazio letterario - e scrive di se stesso, del suo lavoro, appunto: scrivere. È un soggetto che rinasce alla vita quando abbandona definitivamente l’estrema destra e poi, anche da sinistra, quando combatte ogni tipo di antisemitismo.
Potremmo allora, credo, raccogliere la proposta di Blanchot anche per le altre attività, quelle del fuori. Fuori dal mero pensare. Derrida intitola un saggio su Artaud: Forsennare il soggettile. Forsennare, uscire dal senno, dal pensiero. Il soggettile, la filigrana della tela, la consistenza del colore, la marca del segno della matita, la qualità della pellicola. La materialità per la creazione di sequenze di un film, di passi per danzare, di elementi per comporre, dipingere, creare nuove funzioni scientifiche, ma, anche in filosofia, creare concetti, disporli tra loro in connessione (le pratiche filosofiche), dedicare la vita a praticare la psicoanalisi, la psicoterapia e, infine, perché no, dedicare la propria vita a fare l’artigiano, il coltivatore, ecc.. In altre parole: fornire un senso alla vita; cantare il “legnaiuol, che veglia nella chiusa bottega alla lucerna, e s’affretta e s’adopra di fornir l’opra anzi il chiarir dell’alba”, “il zappatore”, che “seco pensa al dì del suo riposo”. Non si tratta solo di ciò che “dà da pensare”, ma di “ciò che dà da fare, da raccontare, da creare”.
Per Blanchot si muore, noi siamo sempre immersi nel si sociale, e c’è un solo fatto: la morte, tutto il resto è divenire. Ogni gesto umano, persino il pro-curarsi del caffè, utilizzando la cuccuma, quando si è esausti, davanti a una bimba che decide, con ragione, di non dormire, perché vuole esplorare l’esistenza,.
Non credo che questo tolga nulla al testo di Moreno Montanari, che, infatti, si conduce interamente in questa feconda direzione. È un testo che dà senso alla vita. Attraverso la sua, a quella del soggetto collettivo, dunque anche alla mia e a chi lo legge.
Pietro Barbetta