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Heimat

di Nora Krug Giulio Einaudi Editore, 2019

Il paesaggio doloroso della Memoria

Nora Krug. Un'illustratrice tedesca ha ricostruito con parole, disegni e documenti il passato della sua famiglia e l'enorme colpa che pesa sul suo popolo.

«Come fai a sapere chi sei se non capisci da dove vieni?», se lo è chiesto ossessivamente una giovane tedesca che diciassette anni fa andò a vivere negli Stati Uniti diventando una delle più apprezzate autrici di disegni e racconti illustrati, pubblicati su «The New York Times» e «The Guardian» e insegnante alla Parsons School of Design di New York. Come molti tedeschi, nati nel dopoguerra, aveva sempre percepito una certa reticenza e imbarazzo, da parte dei genitori e dei parenti, a parlare del nazismo e delle vicende famigliari nella prima parte del Novecento. Anche per questo motivo, una volta all'estero, si era portata dietro un forte senso di colpa trovandosi impreparata ad affrontare la diffidenza della gente verso il fatto che lei fosse tedesca: «L'idea di peccato ereditato (come i tedeschi chiamano il peccato originale) e l'idea di dover pagare per le colpe di un'altra generazione mi suonava familiare».

Nora Krug, avendo poi sposato un ebreo americano, ha sentito l'esigenza di capire meglio l'enorme colpa che pesa sul suo popolo, prima di tutto a partire dalle eventuali responsabilità dei membri della sua famiglia: «Più vivo lontano dalla Germania, più l'idea della mia identità mi sfugge. La mia HEIMAT è un eco, una parola dimenticata, un tempo urlata tra le montagne. Un riverbero irriconoscibile».

Come mostrava bene l'omonimo film in undici episodi (1984), del regista tedesco Edgar Reitz, «Heimat» è un termine che definisce l'idea di un paesaggio o di un luogo reale o immaginario al quale una persona associa un immediato senso di familiarità. Ma, per la Germania, questo paesaggio non è più soltanto quello che contempla il solitario signore che vediamo di spalle in un famoso quadro del pittore romantico Caspar David Friedrich ("Il viandante sul mare di nebbia", 1817), che viene parodiato nella copertina del libro. Il paesaggio tedesco è, da settant'anni, pieno di orrore, violenza, macerie, imbarazzati silenzi e vergogna. È forse proprio in una certa idea romantica di patria, onore, autorità, senso di superiorità razziale, ossessione per la perfezione e il sublime, che va cercata la radice distorta dell'ideologia nazista?

Creando una bellissima e coraggiosa graphic-novel (che, oltre ai disegni, riproduce foto, documenti, schede esplicative), Nora Krug ha deciso di fare i conti anzitutto con la storia dei suoi nonni, apparentemente «normale e innocente». Con ostinazione e intelligenza investigativa ha fatto domande ai suoi genitori e ai parenti, consultato archivi americani e tedeschi, accostando storie e immagini. È un'operazione che coinvolge il lettore in un'indagine fatta di speranze, paure, illusioni, scoperte dolorose che squarciano una spessa nebbia di «non so», «non ricordo», «non sapevo», «non ero un nazista, tutt'al più un Gregario (Mitläfer)».

La ricostruzione della Memoria, di una storia fatta di silenzi e amnesie (le fotografie del passato sono conservate, dai famigliari, in vecchie scatole nascoste), è molto dolorosa: dai disegni e i testi si percepisce bene la sofferenza e la fatica psicologica provata dalla Krug nella sua indagine. Le due schede (Dal diario di un'emigrata nostalgica. Cose tedesche), che aprono e chiudono il libro, dedicate rispettivamente al solido cerotto Hansaplast (prodotto in Germania nel 1922) e alla colla sintetica UHU (inventata da un farmacista tedesco, nel 1932, che gli dette il nome del Gufo reale), si comprende la volontà dell'autrice di rimediare, medicare, riattaccare i brandelli della memoria di un passato che non passa (e non può passare).

Ci sono ferite inflitte, e anche subite, non rimarginabili. Lo sapeva bene lo scrittore boemo Bohumil Hrabal che, come epigrafe alla sua raccolta di racconti Gli stramparloni (1964) appose lo scontrino di una lavanderia: «Ci sono macchie che non si possono togliere senza intaccare il tessuto».

Tra i "non detti" che, nella ricostruzione del passato famigliare e collettivo Nora Krug si trova ad affrontare, c'è anche la questione dei tedeschi come vittime: l'inutile e devastante bombardamento di Dresda e delle altre città non più obiettivi militari (efficacemente raccontate, nel 1999, da Winfried G. Sebald ne "La storia naturale della distruzione", Adelphi); gli stupri che molte tedesche dovettero subire; le deportazioni di massa di popolazioni germaniche, alla fine del conflitto. Ma la Krug non giudica: si limita a mostrare e raccontare. Tutti i dubbi e i rimorsi li lascia a sé stessa: «pur sapendo che non posso accettare il perdono per l'imperdonabile, che l'espiazione individuale non può cancellare la sofferenza di milioni di persone». Si chiede però come sarebbero, ad esempio, andate le cose: se il nonno materno Willi (1902-1988), prima socialdemocratico e poi iscritto al Partito nazista, non si fosse limitato a guardare la persecuzione degli ebrei e l'incendio della Sinagoga di Karlsruhe, fosse stato poi indagato e epurato dagli americani nel dopoguerra e avesse continuato a sostenere, di non saperne niente; se il suo fratello minore, Edwin (1909-1944), non fosse stato ucciso combattendo in Estonia, dopo aver scritto, in una delle ultime lettere alla famiglia, «la guerra pretende da noi cose che vanno ben oltre il sovrumano sotto tutti i punti di vista»; oppure, se lo zio Franz-Karl (1926-1944), il fratello maggiore del padre, plagiato dall'educazione nazionalsocialista, non fosse morto in combattimento e ora sepolto in un cimitero di guerra tedesco in Italia...

Scoperta, alla fine, una vergognosa e dolorosa verità, anche sulla sua famiglia, la Krug conclude: «Sono contenta di aver fatto tutte le domande che dovevo, di esser tornata indietro a raccogliere le briciole di pane, di aver guardato sino a esser sicura che non ne fosse rimasta nemmeno una, di sapere quello che prima non sapevo: che la HEIMAT si ritrova solo nel ricordo, che comincia a esistere solo quando l'hai persa».

Dopo aver letto un libro così viene da chiedersi quanti di noi italiani, singolarmente e collettivamente, abbiano avuto il coraggio di compiere questo lavoro sulla nostra memoria di quegli anni, al di là del dolciastro, e poco veritiero, stereotipo degli «italiani brava gente». Nei nostri libri di scuola, a differenza di quelli tedeschi, si dice infatti ancora troppo poco: dei silenzi sui massacri in Etiopia (unica nazione a usare i gas!), in Jugoslavia e negli altri Paesi dove si combatté; delle stragi e il collaborazionismo durante la guerra civile; sulle discriminazioni degli ebrei e della complicità con coloro che li uccidevano o li caricavano sui treni per i campi di sterminio... I nazisti e l'esercito tedesco, e le atrocità da loro compiute durante la Seconda guerra mondiale, è come se avessero coperto e sminuito le atrocità degli altri, alleati o vincitori che siano.

Pubblicato sul supplemento domenicale del "Sole24Ore", 27/X/2019

Francesco M. Cataluccio, Responsabile editoriale della Fondazione Gariwo

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