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L'età dei muri. Breve storia del nostro tempo

di Carlo Greppi Feltrinelli Editore, 2019

Proprio in questi giorni stavo leggendo il libro di Carlo Greppi, L’età dei muri. Breve storia del nostro tempo (Feltrinelli 2019); quando è sopraggiunto – da calendario – il Giorno della Memoria. Non ci poteva essere coincidenza più opportuna per una riflessione personale sui temi che accomunano l’oggi con un passato che ancora per certi versi lo condiziona e che non va assolutamente dimenticato né rimosso. Seguendo il filo immaginario delle innovazioni tecniche di tre geniali inventori: il cemento armato (Joseph Monier), la concertina (Charles Weatson) e il filo spinato (Joseph Farwell Glidden), Carlo Greppi riesce a caratterizzare l’epoca, che ancora stiamo vivendo, come l’età dei muri: «quando i due Joseph muoiono, nel 1906, sta per inaugurarsi un’epoca in cui l’unico collante di molte società umane sarà quello che le divide: sta per iniziare l’età dei muri» (p. 14). Per ripercorrere questa storia di separazioni etniche, politiche, ideologiche, che ha avuto il proprio luogo generatore nelle due guerre mondiali e che ancora non accenna a finire, l’autore intreccia, con felice leggerezza e apparente casualità, quattro biografie che trovano un destino comune nelle vicende, pubbliche e private, di questo nostro tempo. Uno storico (Emanuel Ringelblum), un musicista (Bob Marley), un fotografo (Joe J. Heydecker), un attivista politico (John Runnings), senza apparente relazione gli uni con gli altri, ma come imbrigliati nella tela di ragno di una storia materiale fatta di muri che dividono e ricongiungono, di strumenti musicali (concertina) che prestano il nome a ingegnose tecniche militari diseparazione e controllo (la barriera estendibile di filo spinato); di ritrovati tecnici (la macchina fotografica) che possono essere utilizzati per scopi opposti: l’arte o la guerra, la propaganda o la documentazione storica, la distruzione o la ricomposizione di un volto umano del nostro tempo. Tra le molteplici vicende ricostruite dalla randomica narrazione di Greppi, una in particolare si presta ad alcune riflessioni nelle giornate del ricordo della Shoah: quella della costruzione e della successiva distruzione del ghetto di Varsavia, che vede l’occasione mancata di un incontro, riscattata da un successivo, imprevisto, recupero del tempo, tra due dei protagonisti del libro: Emanuel Ringelblum (1900-1944) e Joe J. Heydecker (1916-1997). Il primo, nato col secolo nuovo, condividerà il destino della propria comunità di origine, gli Ebrei galiziani: dalla emigrazione verso ovest, allo scoppio della Prima guerra mondiale, alla scelta della nuova capitale polacca, Varsavia, come sede dei suoi studi universitari (nella Facoltà di Storia, unico accesso possibile per uno studente ebreo, escluso dalle rigide quote razziali dalla Facoltà di Medicina) e patria di elezione, alla condivisione del tragico destino del Ghetto negli anni Quaranta: fino alla fucilazione, subita insieme con la moglie, ad opera dei nazisti. Di sedici anni più giovane il secondo, conoscerà con crescente inquietudine, nella natia Francoforte, l’ascesa dell’hitlerismo, fino alla decisione di lasciare definitivamente la Germania e di dedicarsi ai vagabondaggi per l’Europa (dalla Svizzera e Italia al centro Europa: Cecoslovacchia, Austria, Ungheria, Jugoslavia, Polonia), per assecondare la propria passione per la fotografia. L’Anschluss tedesco dell’Austria lo coglierà di sorpresa, quando ancora pensava di rinnovare il passaporto, per sottrarsi al servizio militare nella Germania hitleriana. Per non creare problemi alla famiglia, attualmente residente a Berlino, deciderà di arruolarsi, senza tuttavia rinunciare al proprio spirito cosmopolita, e a uno sguardo libero e aperto sul dolore degli altri. Dopo la campagna di Francia, entra a far parte (per le sue competenze fotografiche e filmiche) del reparto di propaganda (la compagnia D) di stanza a Postdam. Ma la sua ritrosia a collaborare coi nazisti lo relega nelle retrovie: prima a Berlino e successivamente (dopo il matrimonio con Marianne, anch’essa insofferente di ogni regime totalitario) a Varsavia, da lui conosciuta al tempo in cui era la “Parigi dell’Oriente”, ed ora (nell’inverno 1940-1941) ridotta in macerie. Qui assiste con crescente inquietudine alla costruzione dei muri del Ghetto, vergognandosi della divisa che indossa e a disagio nel ripercorrere le strade a lui familiari, «sempre col timore di incontrare conoscenti e amici di quel tempo». Al di là e al di qua del muro, Emanuel e Joe J. conducono vite parallele, senza rapporto l’una con l’altra, ma che concorrono a determinare una visione convergente del valore simbolico che quella barriera di separazione sta assumendo, per il presente e il futuro dell’umanità europea. Gli strumenti di tale presa di coscienza sono assai diversi. Nel caso di Emanuel, che già ai tempi della laurea aveva scritto una tesi sulla Storia degli ebrei di Varsavia sino alla cacciata del 1527, pubblicata dalla Società storica polacca, si tratta di approfondire la consapevolezza storica dell’oscuro presente in cui è immerso. Non diversamente dal grande medievista Marc Bloch, che morirà al fronte nel 1944, combattendo il Nazismo, anch’egli si è reso subito consapevole della possibilità di fare un buon uso della Storia: come viva ricostruzione del passato e opera di memoria e come arma di lotta e di riscatto in vista di un possibile futuro. Fin dai tempi in cui si era adoperato per l’accoglienza nel Paese dei profughi ebrei espulsi dalla Germania (a cui insegnava ballate e tradizioni hiddish, per sostenerne il morale), aveva preso l’abitudine di incoraggiare le vittime della persecuzione razziale ad appuntare i ricordi, a lasciare tracce, prove, nella speranza di poter utilizzare in futuro quei documenti in veste di storico. Ma ora, di fronte alla minaccia incombente di una segregazione totale e definitiva degli ebrei nel Ghetto, comprende che quel futuro è ora, e che il dovere dello storico non è solo quello di documentare e interpretare, ma di partecipare alla lotta. Egli scrive presago:

«da un po’ di tempo si nota un intenso rafforzarsi della coscienza storica. Colleghiamo un episodio dopo l’altro della nostra esperienza quotidiana con gli avvenimenti della storia. Stiamo tornando al Medio Evo. Ho parlato con uno studioso ebreo. In passato, gli ebrei si creavano un mondo tutto loro, vivendoci dimenticavano gli affanni che li attorniavano, e non permettevano a nessuno di penetrarvi dall’esterno. Quanto ai paralleli l’attuale espulsione è la peggiore che la storia ebraica registri, perché in passato c’erano sempre delle città dove andare a rifugiarsi».

Questa illusione protettiva è proprio ciò di cui gli ebrei di Varsavia si devono ora liberare, rendendosi conto che l’opera di costruzione del ghetto, che utilizza i più avanzati strumenti della tecnica e impiega manodopera giudaica, ha una finalità diversa e micidiale: «oltre quella costruzione di mattoni e filo spinato, si stavano murando vive mezzo milione di persone». Emanuel vivrà in prima persona tutte le tragiche vicende successive, adoperandosi non solo per sostenere la sopravvivenza di quelle vittime, ma per aiutare la comunità a comprendere che in quelle vite si condensa il destino dell’intera umanità, e che la loro resistenza assumerà valore universale. Nel suo Diario egli registra puntualmente questa metamorfosi della vittima in testimone: «l’impulso di mettersi a scrivere le proprie memorie è irresistibile. Lo fanno persino i giovani che si trovano nei campi di lavoro. I manoscritti vengono scoperti, stracciati, e gli autori percossi». Non potendo abbattere il Muro, non potendo arrestare il corso della storia, Emanuel sceglie di documentare tutto quello che riesce: «la solidarietà e gli egoismi, i fallimenti e le strategie vincenti, la sofferenza e i momenti di gioia». Con l’aiuto di un profugo di Lodz divenuto suo segretario, Hersch Wasser, e di una giornalista che conosce da tempo, Rachel Auerbach, Emanuel contribuisce a stampare i fogli clandestini dell’organizzazione sionista (Polae Zion) di cui è militante, e fonda una società segreta (Oneg Shabbat, la Gioia del Sabato) che raccoglie materiale documentario sulla storia del Ghetto. Sotterrato in un edificio prima della sua distruzione finale, tale materiale verrà recuperato dopo la fine della guerra e la sconfitta della Germania, e servirà come strumento di lotta e di memoria per i sopravvissuti. Ma la prospettiva dall’interno del Muro di Emanuel va completata dalla diversa prospettiva dall’esterno di Joe. J. Se il mondo esterno dei murati vivi si riduce sempre più alla disperata speranza di una sopravvivenza sognata o illusoria (prima del tragico tentativo finale di rivolta), quello che appare al di là del muro agli occhi dei muti ed impotenti (o complici) testimoni esterni, finisce con l’acquistare l’irresistibile attrazione e la curiosità che esercita un mondo separato ma prossimo, incognito anche se conosciuto, agli occhi delle coscienze più avvertite (almeno a quella di Joe J.). «Il gioco del Ghetto continua» – aveva scritto nel suo Diario Emanuel – riferendosi al disgustoso spettacolo quotidiano di gratuite violenze contro gli inermi, ad opera delle SS e dei commilitoni di Joe J. Per combattere il contrabbando che consentiva un minimo di sopravvivenza agli schiavi del Ghetto, i tedeschi non esitano a sparare sulla folla, a incrudelire, per una pagnotta rubata, su vecchi e bambini. Non è uno spettacolo senza testimoni, perché tutti, al di là del muro, sono consapevoli di ciò che accade tra quelle mura (il Ghetto può essere addirittura attraversato con una tramvia), e spesso si affollano, curiosi, intorno ai valichi:

«uomini e anche vegliardi degni di profondo rispetto erano pestati a sangue dai poliziotti tedeschi. Dinanzi a quelle scene spesso dalla folla dei curiosi si levavano grida di incitamento».

Non è però lo stesso tipo di curiosità che assilla Joe J., sino alla decisione di varcare il muro e di fotografare tutto ciò che riuscirà a documentare. Da giorni e da settimane egli si sente bruciare addosso la divisa, che agli occhi delle ignare vittime è già una prova di colpevolezza. Ed ora si mette a scattare furiosamente foto in bianco e nero, con la sua Kine Exakta, una reflex che dà il «completo controllo della composizione e della messa a fuoco», come vantava la pubblicità nell’anno dell’acquisto, subito prima del suo richiamo alle armi. Adottando la tecnica del montaggio del cinema muto, di cui i suoi genitori erano stati attori e produttori negli anni che avevano preceduto la guerra, Joe J. accumula materiale diviso nell’immagine ma continuo nella pellicola, in una sorta di narrazione epica e tragica ad un tempo:

«volti che iniziano a essere scavati dalla fame, dalla fatica. Membra intirizzite dal freddo. La neve tra le macerie. La fascia con la stella di David al braccio. Un mendicante. Un mendicante. I nuovi arrivati del Ghetto, dallo sguardo perso. Un uomo che suona il violino. Un mendicante. Un mucchio di stracci buttato a ridosso di una tubatura, dalla quale fuoriesce forse ancora il ricordo di un po’ di calore: a uno sguardo più attento, dagli stracci sbucano dei piedi. Bambini accasciati e sfiniti dalla fame. Alcuni si abbracciano, quasi a trattenere un po’ della loro umanità».

Ogni tanto bisogna sostare per prendere fiato e trattenere il disgusto. Poi però si riprende… Come nella grande stagione del cinema espressionista tedesco, ad un massimo di oggettività e impersonalità nella rappresentazione, fa riscontro qui un massimo di intensità soggettiva nella volontà di espressione del sentimento. Nel caso di Joe J. Heydecker, è la presa di coscienza della responsabilità collettiva di fronte alla colpa inespiabile di cui si è reso complice il popolo tedesco. A questa presa di coscienza si ispirerà il titolo del romanzo scritto diversi anni dopo dal piccolo soldato-fotografo: Dov’è tuo fratello Abele? Egli tornerà ripetutamente al di là del muro, accompagnato da tre suoi commilitoni: Krause, Köhler e Kramer, che lo assisteranno nel lavoro, in una crescente assunzione del rischio. Nell’aprile del 1945 Joe J. si troverà a Berlino, ormai disertore, dove descrive la desolazione dell’antica capitale dei Reich, distrutta e in fiamme, e assiste alla riemersione, dalle viscere della terra, degli oltre mille ebrei nascosti per anni e salvati dai berlinesi. Ma la sua mente è ancora a Varsavia, e lo spinge a raggiungere sua moglie Marianne, riparata in Turingia, che conserva i negativi delle foto scattate nel Ghetto. L’ultima volta che si era trovato nella capitale della Polonia, era stato nel novembre 1944: una città fantasma, nell’interregno tra il ritiro dei tedeschi e l’arrivo dell’Armata rossa. Dopo la guerra, quando le sue fotografie verranno utilizzate dalla propaganda americana per la denuncia dei crimini nazisti, e quando potrà dare alle stampe La mia guerra. Sei anni nella Wehrmacht di Hitler, egli ritroverà la parola e il coraggio della denuncia. Ma ciò che prevale, in quell’ora di totale sgomento e abbandono, è un mutismo che impedisce di proferir verbo, dinanzi a quell’abisso di orrore e di ignominia:

«il ghetto di una volta si stendeva vastissimo, una distesa di macerie avvolta nel silenzio, da cui qua e là emergeva un pilastro, una trave di ferro. Il limite svaniva nella bruma di novembre. Qui scattai le ultime foto su cui ho fissato la città morta di Varsavia. Ritto in piedi, fissavo le macerie intorno a me. Persino l’aria era immobile. Urlava il silenzio. Molto lontano lo strepito dell’artiglieria o il palpito del mio cuore in gola. Il mio compagno mi scosse: dovevamo andare via. Ma non pronunciò una parola».

A noi odierni lettori di questo libro non può sfuggire la tragica continuità tra quelle trascorse vicende e ciò che quotidianamente ci coinvolge. Passata la bella illusione di un futuro senza muri, di un borderless world, suscitata dopo il 1989 con l’abbattimento del muro di Berlino e della Cortina di ferro, nella fase a cavallo tra XX e XXI secolo, in concomitanza con la guerra al terrore su scala mondiale, sono stati «proprio i regimi democratici a ricorrere sistematicamente a barriere e dissuasori fisici di ogni tipo» e pare essere proprio questa la direzione che sta prendendo piede nel mondo occidentale, «sedotto dalla retorica dell’ultradestra che, spesso rifacendosi esplicitamente a quelle novecentesche dei fascismi, preme per separare, chiudere, blindare» (p. 259). L’immagine di una Europa come fortezza assediata ci viene quotidianamente trasmessa da un sistema mass-mediatico che ripropone ossessivamente le immagini e i messaggi di una comunicazione manipolata e controllata a livello planetario, con un analogo effetto di saturazione e desensibilizzazione, proprio dei sistemi totalitari. Non è facile, ma è pur necessario, riacquisire quella libertà di sguardo che caratterizzava i protagonisti della saga storica ricostruita da Carlo Greppi nel suo libro. Occorre saper ricongiungere i due sguardi: quello da fuori e quello da dentro, unire ciò che si vuol mantenere separato, aprire ciò che si crede di poter tenere ermeticamente sigillato. È quanto si sforzano di fare, con crescente rischio personale, militanti e attivisti in prossimità degli odierni muri: quelli edificati nelle tre grandi democrazie di Israele, Stati Uniti e India, come quelli che si ripropongono nelle rotte dei disperati che dal Sud e dall’Est del mondo ricercano una difficile accoglienza in Europa. Ma è un esercizio che dovrebbe saper compiere ogni cittadino consapevole dei propri diritti e doveri, nelle nostre comode città e confortevoli abitazioni, al riparo dai freddi venti della Storia (quella con la maiuscola). Immaginarsi al limite di un muro, suscitare curiosità (prima ancora che pietà) per quelli che stanno di là, consapevoli del fatto che ogni prospettiva individuale è parziale e spesso erronea, e va integrata con quella degli altri. “Che ci faccio qui?” – si sono sempre chiesti i grandi viaggiatori ed esploratori di mondi: un atteggiamento da nomadi che ben si attaglia al nostro tempo. 

Amedeo Vigorelli, docente di Filosofia morale Unimi

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