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Nei suoi occhi verdi

di Arnost Lustig Keller editore, 2014

La narrazione attraverso cui si snoda la storia di Hanka Kaudersova è accuratamente studiata per suscitare orrore, disgusto, angoscia, disperazione.
L’autore - il grande scrittore ceco Arnost Lustig, ebreo scampato ad Auschwitz - costruisce il racconto come un mostruoso edificio di cui è intento a scegliere con zelo mirato ogni mattone, ogni infisso, ogni tegola, per creare un’atmosfera profondamente cupa e glaciale.
Architetto e muratore “letterario”, Lustig ci conduce per mano, parola dopo parola, all’interno di questa costruzione terrificante. Man mano che ci inoltriamo nelle sue stanze, siamo assaliti da una sensazione sempre più spiacevole: ci manca l’aria, ci sembra di non farcela a continuare, come se fossimo precipitati in un incubo da cui abbiamo assoluto bisogno di risvegliarci - senza riuscirci.
Siamo risucchiati in un vortice di aberrazione, malvagità, turpitudine, perversione, che non riusciamo a sopportare, che ci colpisce allo stomaco fino a lasciarci tramortiti, senza forze.

Tante volte è risuonata - dopo Auschwitz - l’eco della parola “indicibile” per descrivere la Shoah. Lustig in questo romanzo sembra voler sfidare questa impossibilità. Leggendo Nei suoi occhi verdi nasce il sospetto di essere coinvolti in un duro esperimento, come cavie di un complesso laboratorio letterario.
All’inizio ci troviamo catapultati - nostro malgrado - in un vortice di disumanità pressoché insostenibile. Chi decide di continuare nella lettura - nonostante la nausea montante - di fatto aderisce all’esperimento, sceglie di condividerlo per verificarne il risultato.
Quello che l’autore sperimenta è il tentativo di trasmettere “fisicamente” l’orrore, di farcelo sentire nelle viscere. Se siamo interessati a conoscere, a capire che cosa è stato davvero quell’“indicibile”, l’unica strada percorribile è questa: accettare la provocazione delle parole, la loro violenza inusitata, scendendo gradino dopo gradino, paragrafo dopo paragrafo, in un inferno senza nome e senza spiegazione, addentrandoci man mano nel buco nero della putrefazione e della morte.

Lustig sembra animato dallo stesso gusto perverso dell’orrore, nel delineare con crescente insistenza le atmosfere mefitiche del bordello per ufficiali nazisti in cui Hanka è rinchiusa, ebrea in incognito costretta ogni giorno a convivere “gomito a gomito” con il fantasma della morte, fisica e morale.
In realtà l’autore ci pone una domanda, che pervade ogni pagina anche se non è mai formulata: volete davvero conoscere la verità? Se davvero lo volete, dovete sottoporvi alla tortura delle parole, a questo tormento che vi obbliga a sentire “olfattivamente” l’insopportabile fetore del male estremo.
Solo chi l’ha vissuto può tentare di trasmetterlo, può imbarcarsi in un esperimento così ardito. Per farlo ha bisogno della letteratura, dell’estro dell’arte, delle vette espressive che solo un grande scrittore può tentare di raggiungere.

La “Bambola” - come viene soprannominata la bellissima Hanka dai profondi ed enigmatici occhi verdi - saprà riscattare l’orrore con l’amore, riuscirà a non farsi contaminare dalla sporcizia che la circonda perché è pulita dentro e la sua ingenuità di quindicenne senza macchia la renderà impermeabile al male, distaccata e lucida interprete di una strenua resistenza morale.
La sua integrità le permetterà di riemergere dal fango e costruire la propria vita con la rinascita della speranza, dopo la sconfitta dei suoi carcerieri torturatori.

Lustig ci prende al laccio, man mano che ci fa inoltrare insieme ad Hanka nell’edificio, e non ci permette di uscire: una volta coinvolti non possiamo sottrarci alla narrazione, abbiamo bisogno di setacciare la costruzione da cima a fondo in compagnia della “Bambola”, finché ci appare una luce che indica l’uscita.
La ragazza dagli occhi verdi esce con noi dall’incubo, ci parla con calma e con la consapevolezza di non poter “perdonare ciò che non si può perdonare. Dimenticare ciò che non si può dimenticare”. Ben presto scoprirà “che la vita appartiene ai vivi. Ai morti si deve solo rispetto: null’altro poteva dare loro”.
Ritornata nel mondo dei vivi, Hanka “restituiva sorrisi alla gente per strada… Somigliava a una barchetta che naviga in un mare ignoto, arrivando da una tenebra che conosceva lei sola, diretta verso la luce che è a tutti comune”.

Il romanzo si conclude con queste emblematiche parole: “Quando la Bambola, Hanka Kaudersova, aveva quindici anni e andava per i sedici aveva la pelle pulita, i capelli lucidi e ben pettinati che le stavano ricrescendo e un bel paio di occhi verdi”.

Un romanzo in bilico tra disperazione e speranza, che non vuole rinunciare alla speranza nonostante la disperazione. Un romanzo senza illusioni, di un protagonista consapevole che le ferite trasmesse dalla ferocia degli uomini sono insanabili, anche se si può ricominciare a vivere.

Ulianova Radice, già direttrice e cofondatrice di Gariwo

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