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Tanto tu torni sempre

di G. Caldara, M. Colombo Ines Figini. La vita oltre il lager, Melampo Milano, 2012

La copertina del libro

La copertina del libro

Ines Figini viene deportata nel marzo del 1944, non aveva ancora 22 anni, “la stessa età del fascismo”. Non era ebrea, non era un’antifascista, era semplicemente una ragazza che aveva osato dire “no”, si era ribellata una sola volta nella vita, con l’incoscienza e l’impulsività di tutti i suoi vent’anni, per difendere i compagni di lavoro che avevano organizzato uno sciopero.
Il padre è un panettiere, un combattente della Grande Guerra, la mamma casalinga. È la quarta di cinque figli, la prima femmina. Da bambina è molto vivace, la sorellina più piccola, Anna, più riflessiva e calma, è la vittima preferita dei suoi dispetti. In casa regna una buona disciplina imposta dal padre che però perdona la sua vivacità.
A scuola Ines è volenterosa, non ha passione per la matematica ma “scrive volentieri” e si innamora della lettura. Trascorre molto tempo con i libri, per legg ere addirittura si allontana da casa, isolandosi per molte ore. La madre inizialmente si preoccupa poi si rassegna e la attende fiduciosa: “Tanto tu torni sempre a casa”, le dice spesso (vedi pagg. 25-26).
Questa serena convinzione della madre, la voglia di non deluderla sarà la fiammella che terrà vivo il desiderio di tornare a casa dopo la deportazione nel lager.
Dopo le scuole elementari vorrebbe proseguire gli studi ma la sua famiglia non può permetterselo: si iscrive quindi alla scuola complementare (di avviamento professionale).
Ines è stata mandata dalle suore che le hanno insegnato a “tenere in mano l’ago”. Questo le torna utile quando comincia a lavorare alla Comense, non ha ancora compiuto 16 anni e deve fare tutta la gavetta, conoscere il processo di lavorazione della seta. La Tintoria Comense è nel pieno dello sviluppo economico in quegli anni e per gli abitanti della zona simbolo di sicurezza economica. (“Se lavori alla Comense hai il pane garantito”, si diceva). La disciplina che viene imposta alle operaie è rigida: è richiesta massima puntualità, gonne sotto al ginocchio e calze anche d’estate. A controllare le maestranze c’è il dott. Umberto Walter (descritto a pag. 21). Il fascismo impone lo sport in azienda e Ines, il vero ritratto della salute, primeggia nella ginnastica e diventa capitano nella squadra di pallavolo. Le sue giornate sono piene di impegni, tra le ore di lavoro, le amiche e gli allenamenti. 


Nel febbraio 1943 a Como compaiono i primi manifestanti contrari al regime fascista: ci sono “scioperi bianchi” anche nella Provincia di Como. Il 1 maggio 1943 viene posta una bandiera rossa sulla collina di Brunate. Il 25 luglio viene arrestato Mussolini e a Como ci sono manifestazioni di gioia.
Alla Comense, la fabbrica di Ines, il clima si fa più teso. C’è paura dei delatori, delle spie, nella lavorazione entrano prodotti per uso bellico, molti operai sono arruolati e sostituiti dalle donne. Nell’agosto del 1943 Milano viene bombardata e Como accoglie centinaia di sfollati. I generi alimentari sono razionati e procurarseli è sempre più rischioso.
Il 22 gennaio 1944 gli Alleati sbarcano ad Anzio e a Como la Repubblica sociale costringe all’arruolamento, a rischio della fucilazione o della deportazione. Il Comitato interregionale di Lombardia, Piemonte e Liguria proclama uno sciopero nazionale a partire dal primo marzo.
Il sei marzo Ines entra al lavoro e si accorge subito che qualcosa non va: nota i volantini clandestini che invitano a sospendere il lavoro alle dieci in punto di quella giornata (pag. 37). L’adesione allo sciopero è massiccia ma qualche spia c’è e irrompono gli uomini della polizia fascista. Walter, il direttore, è furente. Grida in dialetto: “Sono in grado io di dominare i miei operai!”.
Dopo una mattinata di interrogatori a mezzogiorno gli operai trovano i cancelli chiusi: non possono uscire. Davanti ai cancelli la direzione dell’azienda e il questore Pozzoli che legge un elenco di nomi da un foglietto, una serie di colleghi di Ines che lei conosce di vista. Sono quelli che sono stati individuati come i responsabili dello sciopero. Il questore annuncia che saranno mandati “a lavorare in Germania”.
“Non è giusto portare via solo loro: abbiamo scioperato tutti, dovete arrestarci tutti! O tutti, o nessuno!”...

Ines è solidale con loro e si fa forte del fatto che non è possibile fermare la produzione dell’azienda... ma è l’unica voce che si leva in solidarietà dei compagni segnalati nella “lista nera”. Il questore si mostra comprensivo: “Sei una brava ragazza... se mi dai la tua parola che nel pomeriggio riprendete a lavorare io lascerò liberi i tuoi compagni”. Lei stessa non dà peso al suo gesto, non si rende conto che sta rischiando la vita: vede un’ingiustizia e la fa notare.
Ines e gli altri obbediscono e nessuno da peso all’incidente, lei stessa non riferisce l’accaduto alla sua famiglia. Ma è proprio Hitler a decidere di usare il pugno di ferro contro gli scioperanti e quindi Ines con gli altri viene portata “in  Germania a lavorare”: nella notte due fascisti armati di mitra irrompono a casa sua e la portano via per interrogarla. 
Prima del viaggio un interrogatorio in Questura che per Ines non dà risultati: Ines non conosce davvero gli organizzatori dello sciopero... (pag. 42).
Durante il viaggio per il lager le donne sono poche, viaggiano nella stessa carrozza con gli ufficiali. Ines chiacchera con uno di loro che è di stanza proprio a Como: hanno qualche conoscenza in comune... a Pordenone Ines e la sua amica e collega Ada, antifascista convinta, hanno bisogno del bagno: il militare indica loro una casupola non troppo distante dalla stazione con uno “strano gesto”: le invita a fuggire. Le donne restano un poco indecise sul da farsi ma poi temono le rappresaglie sui propri cari che avevano minacciatoi nazisti e decidono di ritornare sul treno. L’ufficiale prova a convincere ma senza riuscirci (pag. 53). 
Le donne arrivano a Mathausen ma ci restano solo pochi giorni: la loro destinazione finale è Auschwitz.
Ines affronta questo  viaggio con “ottimismo”: ha poco più di vent’anni, è in buona salute, è convinta che andrà in Germania a lavorare, che guadagnerà soldi... Ma scesa dal convoglio fa i conti con la brutale selezione che divide i sani da i malati, separa le madri da i figli e si rende immediatamente conto che la realtà sarebbe stata ben diversa da quella che le avevano descritto. 
All’arrivo nel lager le vengono tolti i vestiti e il numero tatuato sul braccio la priva della sua identità.... Ines racconta: “I primi giorni sono una scuola di sopravvivenza. L’appello è una tortura. Che piova o nevichi, anche se stai male o ti senti svenire, devi aspettare il tuo turno senza muoverti. Dato che non capisco quando pronunciano il mio nome in tedesco memorizzo la mia posizione nello schieramento. Sempre la stessa, tutte le mattine. Quando sento quella davanti a me rispondere ‘ presente’ deduco che il prossimo numero sarà il mio. (...).
Finito l’appello, prendo l’abitudine di bere solo la metà dell’acqua sporca che ci danno.  Uso quella che resta per lavarmi la faccia meglio di quanto non riesca a fare ai bagni, dove siamo davvero tante. Vinco il ribrezzo delle latrine e pian piano metto da parte anche il pudore: siamo obbligate a condividere tutto senza un momento di intimità personale. Durante il lavoro se devi andare di corpo chiedi il permesso al soldato, che rimane li a controllarti “(pag. 64). Ines racconta anche che i tedeschi sciolgono nel cibo una sostanza per arrestare il ciclo e questo le provoca ascessi alle gambe che cura con l’aglio.
“Ecco la realtà - scrive -. Birkenau non è solo un campo di concentramento. È un vero e proprio  luogo di sterminio. Per le ebree è la ‘Soluzione finale’ Prefissata e inevitabile. Per noi - io, Ada, Valeria, le donne di Lecco, le altre del Block, è la sorte che ci attende, se prima o poi non ce la faremo più. Siamo schiave” (...). 
“Da questo momento il mio assillo è uno solo: sopravvivere: lavoro sodo per non essere punita. (...). Cerco di non contrariare i soldati. Non è facile perché sono imprevedibili. Se li saluti, ti sputano addosso; se non lo fai, ti picchiano; per una qualunque sciocchezza, rischi una bastonata” (pag. 67).
Nel lager fa due lavori:  trasporta i liquami delle latrine in inverno per portare i liquami sui terreni da concimare  in primavera scava canali per prosciugare una zona paludosa.
Per Ines tornare è un’urgenza. Tornare a casa per non tradire la fiducia di sua madre che la aspetta ma anche per poter “tornare” al lager, una volta conclusa la guerra, tornare a calpestare quelle zolle di terra, per poter uscire da quel cancello da persona libera. L’idea del ritorno diventa “una fissazione” (pag. 71) che le permette di sopravvivere, diventa un robot agli ordini dei tedeschi pur di non finire uccisa.
Ines è sempre diligente e taciturna. Tranne una volta. Al termine del lavoro bisogna riportare indietro i contenitori della zuppa che, anche vuoti, sono molto pesanti. Le donne russe e polacche puntualmente riescono a evitare l’incombenza e quindi questo tocca sempre alle italiane. Un giorno Ines sceglie di ribellarsi e va a fare una rimostranza alla guardia. La guardia la insulta pesantemente. Il giorno dopo prende nota del suo numero e a fine giornata le consegna del pane con la marmellata che Ines spartisce con le compagne: “Ragazze, ragazze, guardate che cosa mi hanno dato!”. Di tanto in tanto l’uomo le passa di nascosto del cibo, a volte del salame.
La sua amica Ada finisce in “ospedale” per un’appendicite. Ines riesce a nascondersi con lei per alcuni giorni.
Dopo otto mesi viene trasferita in un altro campo: a Ravensbrück.
Le condizioni qui sono migliori rispetto a quello di Birkenau, le donne lavorano al coperto e ci sono meno persone nel Block. Ma il lavoro è molto pesante: le donne devono stare otto ore in piedi ad arrotolare fili di rame su grosse bobine per la Siemens, per 12 ore di fila. Qui vede i bombardamenti antiaerei.
Ma la disfatta tedesca è sempre più evidente... nel 1945 le prigioniere vengono costrette a fuggire con una marcia forzata, chi non ce la fa viene uccisa dal soldato che chiude la colonna. La forza di volontà di Ines contagia le altre che confidano in lei e si lasciano trascinare dalla sua speranza. Finché un giorno  i militari tedeschi le abbandonano: sono arrivati i russi (pag. 83).
La libertà ha un sapore esaltante. Ines decide di provare a mungere una mucca, l’animale mette una zampa nel secchio di latte ma la ragazza, incurante, lo beve comunque. Dopo poco le sale la febbre, la lingua diventa gonfia e la diagnosi è evidente: tifo. Passa mesi  in un “lazzaretto militare” tra la vita e la morte, con la temperatura che oscilla tra i trentacinque gradi e oltre i quaranta, momenti di delirio e di solitudine, curata in un lazzaretto militare, lontano da casa e, per la prima volta, con la concreta paura di non sopravvivere.
A ottobre le sue condizioni di salute sono migliorate ma ha una seria feblite a una gamba che le impedirebbe di mettersi in viaggio. Si agita moltissimo quando scopre che l’accampamento militare italiano di stanza vicino al suo ospedale deve essere smantellato e non vuole sentire ragioni: deve tornare a casa. La sua celebre forza di volontà non si piega nemmeno questa volta: sale sul treno con la gamba pericolosamente gonfia e si mette in viaggio. Arriva a Como e trova la sua famiglia che la attende stupita. Sua madre le chiede cosa vuole da mangiare, lei si fa preparare la polenta. 
Rimane immobile a letto perché ha dei problemi al piede, inizialmente le prospettano un’operazione che però fortunatamente decide di non fare, una riabilitazione la rimette in forma. 
Tornerà al lavoro alla Comense, non come operaia ma come addetta all’amministrazione. Quando l’azienda cambia nome e diventa Ticosa diventa assistente sociale, occupandosi delle problematiche degli operai.
Inizialmente non ama raccontare quanto ha vissuto, è solo felice di aver ritrovato la sua quotidianità.
Poi però comincia a tornare in Polonia, a raccontare la sua esperienza, a fare testimonianza. Una visita toccante è descritta da pag. 108. 
Ines è una donna molto attiva e non si ferma mai. Fa avanti e indietro dalla Polonia due volte all’anno, quando l’età glielo permette.  Viaggia per il mondo. Scia fino a 75 anni.
“Mi rendo conto che ho un dovere: contribuire a educare i giovani alla riconciliazione e al rifiuto dell’odio. Non sono concetti facili da trasmettere. Ma se i ragazzi ne sentiranno parlare da una come me, che ha vissuto quello che ho vissuto io, forse potranno assimilarli (...). Ma non si può vivere pensando solo alla sofferenza e al male: quel che è stato, è stato. Allora parlo serenamente di perdono. Anche se io ammetto perché forse mi sono salvata e non ho avuto familiari deportati o uccisi” (pag. 116).
Ines non si è mai pentita di quella frase rivolta al questore Pezzoli quando era giovane. E ora dice: “ogni età ha le sue bellezze. Dobbiamo cercarle. Ma io credo di averle trovate”.

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