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Un eroe a sua insaputa. "Ho detto no a Hitler"

di Bianca Pilat Tyche edizioni, 2018, pp. 208

Aprica, comune valtellinese non lontano dal confine con la Svizzera, era stato scelto dal 1942 dal regime fascista come destinazione di internamento in “libero confino” per quegli ebrei e perseguitati politici, provenienti dalla Croazia, che erano riusciti a scappare dalla ferocia degli ustascia comandati dal fascista Ante Pavelić. Erano considerati prigionieri civili di guerra e dovevano attenersi a tutte le limitazioni di libertà. Fra tutte, la più importante era quella della domiciliazione coatta.

Nel fatidico 8 settembre 1943 vi risiedevano 218 persone esclusi i bambini. La sorveglianza era stata affidata ai carabinieri della stazione di Aprica comandati dall’allora brigadiere Bruno Pilat.

Nel libro Un eroe a sua insaputa. Ho detto no a Hitler, pubblicato da Tyche Edizioni nel 2018, la figlia del comandante dei carabinieri Bianca Pilat racconta la scoperta che l’ha portata a impegnarsi, dopo la morte del padre, in un rigoroso lavoro di documentazione che portasse alla luce le vicende di cui lui era stato protagonista.

"A seguito dell’invasione delle truppe nazifasciste nel Nord Italia, la situazione per gli ebrei si fece difficile. Mio padre, in collaborazione con Don Carozzi, organizzò la fuga degli ebrei attraverso la Val Poschiavo”, racconta Bianca Pilat.

Il 10 settembre iniziò la grande fuga. La gran parte degli ebrei si arrampicò per due giorni sui sentieri ripidi e ignoti della montagna. Alcuni di loro persero la strada e si ritrovarono al punto di partenza. Quindi furono accompagnati personalmente da Bruno Pilat fino al confine. Arrivare nel territorio svizzero però non voleva dire essere in salvo.

Gli ebrei di Aprica furono protagonisti della più grande fuga registrata in quel momento e risultarono davvero fortunati ad essere accettati perché in quel momento la frontiera Svizzera era chiusa a causa di una legge che non considerava gli ebrei perseguitati politici. Il maggiore fautore di questa legge era stato Heinrich Rothmund, capo del dipartimento federale di giustizia e polizia dal 1929 al 1954.

Pilat non condivise in alcun modo le politiche hitleriane e fasciste e pur mantenendo formalmente un atteggiamento rispettoso della legge, collaborò sin dall’inizio con le forze partigiane presenti nel territorio e con la comunità ebraica, cercando di alleviarne la condizione di prigionia. Infine ha fatto in modo che tutti i confinati si potessero salvare. Tutti tranne uno: Benno Ragendorfer che recatosi a Milano a prendere la famiglia e tentando a sua volta di raggiungere la Svizzera, fu catturato con la moglie Regina e la figlia. Vennero deportati ad Auschwitz, dove furono uccisi.

L’autrice cerca di rispondere ad alcune domande come: perché ebrei jugoslavi in fuga dagli ustascia furono accolti all’Aprica dal fascismo? come furono aiutati da quello Stato italiano che nel 1938 aveva emanato le leggi razziali, che toglievano ogni diritto agli ebrei? chi aiutò quelle persone a fuggire in Svizzera dopo la costituzione della Repubblica Sociale Italiana, che avrebbe comportato la loro sicura deportazione?

​​Un libro che fornisce risposta a questi e a tanti altri interrogativi storici, approfondendo prima la storia dell’ex-Regno di Jugoslavia e poi quella della zona montuosa orobica in cui è sito il bel paese di Aprica.

Il 5 giugno 1944, Bruno Pilat venne catturato dalla milizia confinaria e consegnato ai tedeschi a causa della sua attività antifascista. Quindi fu deportato, dopo varie tappe, nel campo di internamento vicino a Ludwigsburg. I primi giorni di aprile del 1945 riuscì a fuggire, rientrò a piedi in Italia e già dal 6 maggio fu nuovamente al comando della Stazione di Aprica per proseguire il suo lavoro là dove lo aveva lasciato.

Bruno Pilat scomparve nel 2006 all’età di 93 anni. Solo dopo la sua morte gli fu assegnata la Medaglia d’Argento al Valor Civile alla memoria, per la sua attività a favore dei perseguitati e a sostegno delle forze partigiane.

Tatjana Dordevic, giornalista

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