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Un mondo senza noi. Due famiglie italiane nel vortice della Shoah

di Manuela Dviri Piemme, 2015

La copertina del libro, edito da Piemme Voci

La copertina del libro, edito da Piemme Voci

E ora "Un mondo senza noi" è tornato a casa, a Tel Aviv, dopo il suo lungo viaggio in Italia. Se ne sta impettito nella mia libreria e ogni tanto lo prendo in mano e lo riguardo, lo sfoglio, lo apro, leggo alcune pagine, lo richiudo.

È stata una bella avventura, iniziata quasi per caso, quando due anni fa mi chiesero di scrivere un libro per raccontare la storia della mia famiglia durante la Shoah. Non ne sapevo niente, al principio. Avevo solo due foto ingiallite, alcuni ricordi dei miei genitori, poche immagini impresse nella memoria.

Iniziai. E i fantasmi del passato cominciarono subito a farsi vivi, e le loro storie e memorie, e i racconti, e le testimonianze. Piccole montagne di documenti iniziarono ad ammucchiarsi sulla mia scrivania.

 “Un mondo senza noi” è la somma di quei ricordi, la storia della mia famiglia allargata: I Russi giunti in Ancona da Ragusa, gli Ascoli di Ferrara, i Salmoni di Senigallia e Ascoli Piceno, i Vitali Norsa diventati padovani ma originari di Ferrara, i Nissim, i Sacerdoti, i Basevi, e tanti altri ancora. La storia di una grande famiglia italiana, perché di una unica famiglia si tratta, in alcuni casi più del cuore che biologica, che vive improvvisamente nel ’38 il dramma di scoprirsi “diversa”, di trovarsi arbitrariamente perseguitata perché ebrea, e ne rimane sconvolta, smarrita, disorientata. Poi faticosamente si riprende, e riesce con fatica a sopravvivere non solo alla vergogna delle leggi razziali, ma anche alla furia nazista del ’43. E infine, a ricominciare da capo.

Nessuno dei miei cari è morto in campo di sterminio, e da questo punto di vista “Un mondo senza noi” non è un libro di Shoah, di quell’orrore della perfezione dell’annientamento che sembra non possa essere considerata umana (ma purtroppo lo è). È un libro che parla soprattutto di ciò che c’era prima, di quello che ci sarebbe stato dopo, e di quei cinque “normali” anni di vessazioni burocraticamente italiane: continue, meschine, quotidiane. Per poi passare ai due di fuga e di caccia all’ebreo che avrebbero portato alla  morte di uno zio e di un cugino spariti nel nulla in un campo di lavoro.

“Un mondo senza noi” descrive i sette anni in cui fu proibito agli ebrei andare a scuola, o insegnare, commerciare, gestire esercizi pubblici, e perfino esercitare una qualunque attività nel settore dell'industria, oppure avere rapporti di affari o di forniture con amministrazioni pubbliche. Descrive anni in cui vennero rimosse le lapidi che ricordavano cittadini ebrei.  Fatti sparire i libri da loro scritti. Parla dei lunghissimi sette anni durante i quali fu proibito agli ebrei avere la radio, frequentare luoghi di villeggiatura, figurare negli elenchi telefonici, pubblicare partecipazioni funebri sui giornali.

E se scrivo queste proibizioni con dovizie di particolari è perché mi è sembrato, durante il mio viaggio in Italia, che molti italiani se le fossero un po’ dimenticate.

E infine il libro è anche la mia storia, la storia della discendente di quegli ebrei che vive da quasi cinquant’anni in Israele. Parla di angosce e paure, ma anche di tante piccole e grandi gioie. Di amori. Di figli, di nipoti. Del cielo azzurro di Tel Aviv e del suo mare caldo, di case bianche in stile Bauhaus. Dei profumi della cucina ebraica di mia madre. Di certi suoi gesti.

Del lessico familiare della mia famiglia.

E anche di storielle ebraiche.

Concludo con una molto amata da mio padre.

Due fratelli gemelli mendicanti si recano periodicamente a chiedere l'elemosina dal barone Rothschild, che non manca di far consegnare loro dal maggiordomo due buste, ciascuna con cento franchi. Un brutto giorno uno dei due gemelli si ammala e muore, ma l'altro non manca di presentarsi all'appuntamento col solito obolo. Il maggiordomo gli consegna una sola busta, con i "suoi" cento franchi. Lo schnorrer, risentito, protesta: "Giovanotto, e i cento franchi di mio fratello dove sono?". E il maggiordomo, con la cortesia che è propria di tutta la servitù del barone Rothschild: "Mi perdoni, signore, ma al barone e a noi risulta che suo fratello sia deceduto". E lo schnorrer: "Le risulta? Le risulta?! Senta, giovanotto, sappia per sua norma e regola che l'erede di mio fratello sono io, non il barone Rothschild!".

Rimetto il libro nello scaffale.

E mi sembra di vederlo, il mio papà, sorridere dall’aldilà, mentre io gli sorrido dall’aldiquà.

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