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Un uomo di poche parole. Storia di Lorenzo, che salvò Primo

di Carlo Greppi Laterza, 2023

Siamo veramente grati a Carlo Greppi, storico di professione che incontra tanti ragazzi nelle scuole, per questo suo ultimo lavoro. Un libro necessario. Un libro bellissimo. Scritto con grande e accurata ricerca delle fonti, come ogni storico deve fare, ma anche con la passione e l’emozione del cuore di un “pescatore di perle”. Perché Lorenzo Perrone è veramente la perla preziosa che Greppi è andato a cercare negli angoli bui della storia, quelli del male, quelli degli ultimi tra gli ultimi di cui nessuno parla ma che hanno salvato e fatto la differenza per tanti. Se uno di questi salvati si chiama Primo Levi, allora ai “Lorenzo” della storia possiamo dare un volto e un nome, possiamo rinnovare la speranza che l’Uomo è miracolosamente là dove la furia nullificante della violenza vorrebbe annientarlo.

Di Lorenzo Perrone Primo Levi scrive subito, nella prima edizione di “Se questo è un uomo”, pubblicata nel 1947 e conosciuta da pochi, quasi un “insuccesso” editoriale perché il testo, stampato poi nel 1958 da Einaudi, è recepito in modo superficiale, come la semplice narrazione di un reduce. Solo dopo 10 anni, con la seconda edizione e con l’inizio dell’impegno di Levi nella sua missione di testimone, “Se questo è un uomo” diventa, con gli altri suoi testi memorabili, quella riflessione radicale sulla Shoah, il male, l’Uomo che conosciamo.

Ma quelle duecentocinquanta “righe memorabili”, come dice Cavaglion, su Lorenzo scritte presto, dopo il ritorno da Auschwitz, non furono più cambiate. Anzi, negli anni Settanta e Ottanta, Primo sembra ricordare con maggiore frequenza, sia nei testi che nelle interviste, il suo amico Lorenzo.

Chi è il muradur di Fossano? E’ uno dei tanti lavoratori piemontesi che vanno all’estero, in Francia, spesso illegalmente, per alcuni mesi l’anno e che, dopo il 1940, con l’occupazione nazista e l’entrata in guerra dell’Italia, torna a casa, cerca di nuovo da lavorare con la ditta “Beotti” di Piacenza, trasferita in Alta Slesia dai tedeschi, e si trova come “volontario” a fare il muratore per la I. G. Farben che costruisce, in quello che diventerà il campo di Auschwitz III nel dicembre 1943, gli impianti della Buna-Werke. L’alleanza tra Germania nazista e Italia fascista non era solo politica e bellica perché gli italiani avevano dichiarato, dopo gli accordi tra i due Paesi, di poter fornire “1100 specialisti” alla I.G.Farben. Gli italiani reclutati prima del 1943 non possono rimpatriare e hanno un ruolo che sta a metà tra l’ostaggio e il lavoratore coatto. Lorenzo è tra le centinaia di italiani della prima ondata di lavoratori che arrivano, inconsapevoli, in quel luogo da cui si può vedere, in lontananza di qualche chilometro, il campo di concentramento e il fumo dei suoi crematori. Questi lavoratori non possono aiutare gli schiavi degli schiavi del campo: la Gestapo teme che, tramite i civili, possa trapelare il segreto delle camere a gas. Chi ha contatti illegali finisce nel Lager per qualche mese.

Nel giugno 1944 incontra per la prima volta Primo Levi: dopo due o tre giorni, Lorenzo si presenta con la sua gavetta da alpino piena di zuppa e al suo inesperto aiutante dice solo di portarla vuota prima di sera. Per sei mesi il muradur porta a Primo e al suo amico Alberto Dalla Volta da mangiare, dona a Levi la sua maglia piena di toppe, scrive per lui tre cartoline da spedire alla famiglia e, grazie a questo, Primo riceve anche un pacco da casa: “ quel pacco, inatteso, improbabile, impossibile, era come un meteorite, un oggetto celeste, carico di simboli: di valore immenso e di immensa forza viva. Non eravamo più soli: un legame col mondo di fuori era stato stabilito” (p. 127). Nel cuore della Shoah, benché avvisato dallo stesso Levi del pericolo che corre, Lorenzo, scuotendo le spalle senza parlare, risponde : “Non me ne importa niente”.“Alberto ed io eravamo stupiti di Lorenzo. Nell’ambiente violento ed abietto di Auschwitz, un uomo che aiutasse altri uomini per puro altruismo era incomprensibile, estraneo, come un salvatore venuto dal cielo” (p. 103).

Nel gennaio 1945 Lorenzo, insieme all’amico friulano Peruch, parte da Auschwitz e percorrerà più di millequattrocento chilometri a piedi in 5 mesi per arrivare a casa. Primo Levi, escluso dalla marcia della morte per aver contratto la scarlattina, si salverà e tornerà nell’ottobre del 1945 dopo un lungo girovagare per l’Europa descritto ne “La tregua”. Primo sa che la sua salvezza è stata l’incontro con il muradur di Fossano: “io credo che proprio a Lorenzo debbo di essere vivo oggi; e non tanto per il suo aiuto materiale, quanto per avermi costantemente rammentato, con la sua presenza, con il suo modo così piano e facile di essere buono, che ancora esisteva un mondo giusto al di fuori del nostro, qualcosa o qualcuno di ancora puro e intero….”. “Lorenzo era un uomo; la sua umanità era pura e incontaminata, egli era al di fuori di questo mondo di negazione. Grazie a Lorenzo mi è accaduto di non dimenticare di essere io stesso un uomo” (p. 144). Primo chiamerà i suoi figli Lisa Lorenza e Renzo. Lo Yad Vashem riconoscerà Perrone Giusto tra le nazioni il 7 giugno 1998.

Carlo Greppi ha voluto conoscere Lorenzo da vicino: perché? Perché in questa storia c’è molto altro, “un muto bisogno di decenza” che porterà Lorenzo a ritirarsi progressivamente dalla vita e morire nel 1952 a 45 anni.

Solitario, di poche parole, dopo il suo ritorno si chiude in un silenzio ostinato e impenetrabile: non parla mai di quello che ha visto . Le zuffe e la violenza atavica dell’ambiente in cui era nato se ne sono andate: la tristezza profonda l’ha cambiato, spesso beve, ha atteggiamenti autodistruttivi ma non può più fare alcun male ad altri. Certo, come dice Primo, a casa “All’improvviso il tuo vicino non era più un nemico nella lotta per la vita, ma un essere umano che aveva il diritto di essere aiutato. Questo per noi fu davvero una specie di risveglio” (p. 167) . Ma Lorenzo quella sensibilità non l’aveva mai perduta!

E così accade che Primo sboccia, rinasce grazie alla “gioia liberatrice della scrittura”. Lorenzo invece sprofonda sempre più. In “ Lilit” l’amico dirà di lui che “non beveva per vizio, ma per uscire dal mondo. Il mondo l’aveva visto, non gli piaceva, lo sentiva andare in rovina; vivere non gli interessava più”.(p. 173) “Mi chiese una volta…:”Perché siamo in questo mondo se non per aiutarci fra noi?”…Non era un ebreo, né era stato prigioniero. Ma era molto sensibile” e provava la “vergogna del mondo”, la vergogna irrevocabile per il male altrui (p. 175), quella che “il giusto prova davanti alla colpa commessa da altri e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa e non abbia valso a difesa” (p. 224).

Lorenzo era “un semplice ma aveva un’idea alta e nobile della vita dell’uomo sulla terra” dirà Levi (p. 222). Lui che era un muratore che con orgoglio faceva il lavoro ben fatto, non aveva più voglia di costruire, anche il suo mestiere gli risultava odioso. Una delle biografe più importanti di Primo Levi, Carole Angier, dice che Lorenzo si lasciava andare non perché aveva visto troppo male (come i reduci) ma perché non poteva più fare il bene (“Not just because he had seen too much evil, but because could no longer do good”) (p. 185) “ Laggiù- dice Levi- non aveva aiutato soltanto me. Aveva altri protetti, italiani e non, ma gli era sembrato giusto non dirmelo: si è al mondo per fare del bene, non per vantarsene.” Aveva, con la sua solidarietà, polverizzato” le fondamenta su cui si basava un mondo concepito sulla certezza del male” (p. 240).

Per Primo è “come un salvatore venuto dal cielo… una specie di santo… non volle essere salvato da nessuno, morì sradicato dal mondo” (p. 225). Strane queste definizioni in bocca a Levi, ateo, per un amico ateo pure lui. “Santo”perché manifesta una realtà diversa dal “mondo alla rovescia” in cui ha vissuto, perché le sue azioni non sono ambigue ma limpide, semplici e chiare, rasentano la perfezione in umanità. Lorenzo è il bene che esiste, anche se non vince .

Angier dirà che lo scrittore “ha fatto della storia di Lorenzo Perrone un centrotavola della sua indagine sull’Uomo”(p. 166): alla domanda “Chi è l’uomo”, risponde con la storia del muratore di Fossano, perché “questo è un uomo”.

Merito di Greppi è di aver dato rilievo a questo “ultimo” dei Giusti, non un diplomatico, non una persona con buona posizione, non un industriale. Sa, come afferma il direttore del Museo di Auschwitz - Birkenau, Piotr M.A. Cywinski, che “la nostra memoria è un po’ come la nostra storia, costruita su una narrazione piena di personaggi -simbolo e disperatamente vuota di coloro che non hanno raggiunto questo pantheon immaginario”(p. 234). Levi ha voluto raccontare una parte della storia che non rimarrà più sconosciuta e anonima: “le storie di vita come quella di Lorenzo hanno trasformato la storia e il modo di farla” (Cesare Bermani) (p. 236).

Lorenzo è l’estremo rappresentante di quella “cultura contadina” che è una “maniera di guardare il mondo”, forse tipica degli umili dotati però di una salda moralità (p. 236), quella descritta da don Lenta per il riconoscimento di Giusto tra le nazioni, quando dice che “ i muratori e i pescatori di Fossano si facevano in quattro per aiutare i più deboli della comunità” (p. 212) . Cultura solidale, ruvidamente empatica, concretamente prossima. Cultura di chi consuma scarpe ed energie per attraversare confini a cercare lavoro e vita.

Lorenzo è un appello, un grido silenzioso a scorgere tracce di bene nel quotidiano della storia, ad ascoltarlo dentro di noi e in chi esprime un “muto bisogno di decenza”, ad accogliere e custodire il fascino struggente dell’umano che abita il mondo.

Arianna Tegani, Commissione educazione Gariwo

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