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L'Unione Sovietica e la Shoah. Genocidio, resistenza, rimozione

di Antonella Salomoni Bologna, Il Mulino, 2007

Babij Jar era un enorme burrone, quasi una forra di montagna, vicino a Kiev. Qui tra il 29 e il 30 settembre 1941 furono gettati i corpi di 33.771 ebrei, secondo i precisi rapporti tedeschi. L'eccidio fu compiuto dal Sonderkommando 4a dell'Einsatzgruppe C con la partecipazione di reparti ausiliari ucraini. Migliaia di persone, tra cui donne, bambini e anziani, furono condotte e uccise a Babij Jar anche nelle settimane e nei mesi successivi e fra gli assassinati a sangue freddo, con cinica ferocia, vi erano anche russi, ucraini, zingari, prigionieri di guerra e partigiani. Ma mentre la gran parte delle vittime del primo eccidio si erano presentate "volontariamente", ignare del tragico tranello celato nei manifesti nazisti, gli ebrei di Kiev sterminati in seguito furono catturati in retate o dopo le denunce della popolazione locale. Alla fine della carneficina, in città si contarono duecentomila morti, metà dei quali a Babij Jar. 

È proprio dal racconto agghiacciante di quanto accadde in questo luogo che prende le mosse il libro L'Unione Sovietica e la Shoah di Antonella Salomoni (Bologna, il Mulino, 2007, pagine 356, euro 24). Si tratta di un lavoro interessante in quanto l'annientamento della popolazione ebraica compiuto dai nazisti durante l'invasione dell'Unione Sovietica, nonostante le sue dimensioni (quasi la metà delle vittime dell'olocausto), è stato per molto tempo poco studiato. All'origine di questa lacuna c'era la difficoltà degli storici di accedere agli archivi sovietici, ma ancor più la tara dell'interpretazione ufficiale di quanto accaduto, stando alla quale nel conflitto scatenato dai tedeschi contro l'Urss non vi fu una "guerra speciale" contro gli ebrei. Le vittime, in sostanza, erano presentate genericamente come cittadini sovietici. Con la pubblicazione di una grande quantità di materiali inediti, oggi è possibile non solo ricostruire le modalità con cui venne attuata la "soluzione finale" sul fronte orientale, ma anche riflettere sulle contraddizioni della politica sovietica di fronte alla popolazione ebraica e allo sterminio. Ed è su questo materiale che Salomoni concentra il suo studio, mettendo in evidenza i principali aspetti della Shoah nei territori dell'Urss occupati dai nazisti: l'immediata esecuzione degli ordini d'identificazione e soppressione su base razziale; la natura pubblica del genocidio e la sua funzione esemplare; il successo della propaganda antisemita associata a quella antibolscevica; il ruolo del collaborazionismo delle popolazioni locali e il loro coinvolgimento negli eccidi. La tesi centrale dell'autrice - che non a caso ha scelto come sottotitolo del volume Genocidio, resistenza, rimozione - è che "se si adotta un punto di vista interno alla storia dell'Unione Sovietica, che è quello accolto in questo lavoro, l'impressione complessiva che si ricava dall'analisi della letteratura pubblicata nel paese sino alla fine degli anni Ottanta è dunque che la Shoah non vi sia mai stata pensata e problematizzata come un evento centrale del XX secolo". Ma perché partire proprio da Babij Jar? Perché, spiega la studiosa, "nel dopoguerra Babij Jar divenne il simbolo dell'atteggiamento minimalistico del governo sovietico di fronte alla catastrofe ebraica. Per molto tempo non si fece pressoché allusione alla sorte degli ebrei di Kiev". Eppure il grande scrittore Vasilij Grossman, al seguito dell'armata rossa come cronista, ne dette conto in una corrispondenza dell'ottobre del 1943: "Queste tracce - scriveva - sono segnate per sempre dalle lacrime e dal sangue dell'Ucraina. Le si potrebbe riconoscere persino nelle tenebre più fitte". Eppure nel 1959 un altro scrittore, Viktor Nekrasov, denunciava con forza come non vi fosse nessuna lapide a ricordare il luogo in cui erano state assassinate decine di migliaia di persone. Nell'ottobre del 1967 a Darmstadt, in Germania, cominciò il processo contro undici imputati chiamati a rispondere dei crimini perpetrati a Babij Jar e in altre località. Nel corso del dibattimento, che si concluse con la condanna di tutti gli imputati, i giudici ascoltarono centosettantacinque testimoni. "Ma la stampa sovietica - annota la Salomoni - malgrado si trattasse dell'episodio più significativo dello sterminio della popolazione ebraica in Urss, non diede quasi conto del dibattimento". Insomma, di Babij Jar non si doveva parlare. 

Lo comprese benissimo il Nobel per la pace Elie Wiesel, raccontando il suo pellegrinaggio, compiuto a metà degli anni Sessanta, nel luogo che non poteva figurare nei programmi delle gite organizzate dagli enti turistici sovietici. In qualunque posto fosse condotto, il visitatore ebreo - come sottolinea l'autrice, riportando l'episodio - non riusciva a liberarsi dalla sensazione che gli nascondessero "qualcosa". E che quel qualcosa fosse l'"essenziale": "Le anime morte che abitano in quel paesaggio sereno, il sangue innocente che scorre nelle vene di quella città splendida e cruenta". Nel racconto di Wiesel, le guide si rifiutavano persino di parlare di Babij Jar: "Se insistete vi rispondono: "Non vale la pena di fare un viaggio, non c'è niente da vedere". E hanno ragione. È inutile scomodarsi. Non scoprirete niente. Né monumenti, né targhe commemorative. A Babij Jar l'essenziale è eluso". Salomoni riporta anche la lettura svolta dal ventottenne poeta Evgenij Evtusenko nel settembre del 1961 (in piena "destalinizzazione") del suo poema Babij Jar che inizia proprio con il verso "Non c'è nessun monumento a Babij Jar", evocando così i timori per l'oblio che circondava quel luogo. L'opera, pur scritta in stile sovietico e ortodossa dal punto di vista ideologico, suscitò "una delle bufere più gravi della letteratura sovietica". Tanto che l'autore, messo sotto pressione dal Partito, si piegò docilmente ad una revisione del testo. Lo stesso dovette fare, suo malgrado, il grande compositore Dmitrij Sostakovic che aveva incorporato il poema nella sua Sinfonia n. 13 detta Babij Jar. La memoria censurata di quanto accadde nei pressi di Kiev è dunque emblematica dell'atteggiamento tenuto dalle autorità sovietiche nei confronti dello sterminio degli ebrei. "A partire dal 1949, salvo rare eccezioni, in un clima di crescente persecuzione della componente ebraica - scrive la storica - e mentre i rapporti internazionali si complicavano in relazione alla costituzione dello stato di Israele, si evitò ogni riferimento esplicito alla Shoah, che scomparve progressivamente dalla cultura sovietica". 

Dopo la morte di Stalin, il silenzio divenne meno assoluto e ci furono tentativi di aprire una breccia nell'oblio, forzando l'informazione. Ma neanche "l'età della destalinizzazione seppe esprimere una letteratura e una storiografia della Shoah". In pratica c'è stato il rifiuto di riconoscere l'unicità dello sterminio degli ebrei, con il concomitante tentativo di ricomprenderli nella categoria dei "pacifici cittadini sovietici" massacrati dai nazisti. Le ragioni di tale politica, secondo Salomoni, sono molteplici, ma una ipotesi da vagliare attentamente "è che le autorità comuniste fossero bene informate sulle forme assunte dalla comunicazione politica nazifascista e quindi nutrissero il timore che un'esplicita denuncia dello sterminio degli ebrei potesse favorire la propaganda che agitava il fantasma del "giudeo-bolscevismo". Sin dall'inizio delle operazioni, i tedeschi fecero infatti leva sui tradizionali sentimenti di una parte delle popolazioni dei territori occupati, sostenendo con largo dispiego di mezzi che la Wehrmacht interveniva per favorire la liberazione della Russia "dai giudei e dai comunisti"". Alla fine del conflitto, con il venir meno del pericolo di un'influenza dell'ideologia nazista sulle popolazioni, "alla persistenza dei sentimenti antisemiti, se non addirittura al loro rafforzamento su basi nazionalistiche, tra gli abitanti delle regioni che erano state soggette all'occupazione, si aggiunsero fattori interni che consigliavano di non enfatizzare il genocidio. In particolare, accanto all'avvio della campagna "cosmopolita" e alla ripresa di una rigida politica assimilazionista, considerata dai poteri centrali l'elemento risolutivo della "questione ebraica", si procedette all'attivazione di un nuovo mito fondatore della cittadinanza sovietica - la "grande guerra patriottica" - che non avrebbe avuto la stessa forza dirompente se lo sterminio degli ebrei fosse stato valutato separatamente". Emblematiche sono le vicende legate al Comitato antifascista ebraico (Eak), grazie al quale si raccolsero simpatie e adesioni soprattutto negli Usa, tali da rendere possibile quella catena di aiuti economici e militari all'Urss che contribuirono alla vittoria sul nazismo. Alla fine della guerra l'esponente più importante, il noto attore teatrale Solomon Michoels, fu fatto eliminare con un finto incidente stradale, mentre gli altri membri vennero processati e condannati a morte o alla deportazione in Siberia. 

Solo a partire dal 1991, e non senza difficoltà e contraddizioni, sono stati pubblicati in Russia i primi ampi studi sulla Shoah. Tra le opere fondamentali va segnalato in particolare il Libro nero sconosciuto, che raccoglie materiale mai pubblicato in precedenza perché censurato. Nel Libro - scritto da Il'ja Erhemburg e da Grossman, intellettuali allora rispettosi delle direttive del partito, ebrei di nascita, ma che svilupparono una coscienza critica anche grazie a questo lavoro - si documentavano, attraverso interviste e diari, i crimini compiuti dalla Wehrmacht e dalle SS durante l'invasione anche con la complicità di cittadini sovietici. Questa ed altre opere hanno contribuito ad avviare in Stati post-sovietici come l'Ucraina, la Bielorussia, la Lituania e l'Estonia serie indagini che hanno spinto ad affrontare i nodi irrisolti delle relazioni tra le nazionalità: il sostegno locale alle truppe di occupazione, la responsabilità personale delle popolazioni al massacro dei cittadini ebrei e la persistenza di un antisemitismo "spesso alimentato - come spiega Salomoni - dalla convinzione che i "giudei" fossero il principale supporto dell'oppressione comunista". Il dibattito è tuttora in corso e la strada verso una piena consapevolezza di quanto accaduto e delle responsabilità individuali e collettive è ancora lunga.

Recensione di Gaetano Vallini, «L'Osservatore Romano», 11 gennaio 2008.

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