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Costruire o demolire? Ripensare il '68

di Gabriele Nissim

 Berkeley (1965)

Berkeley (1965) (© Jim Marshall Photography LLC)

Nell’introduzione di uno dei suoi libri più noti, Sociologia della vita quotidiana, pubblicato nel 1970, Agnes Heller riprendeva una citazione poetica di Goethe : “Quando un uomo viene al mondo costruisce una casa, poi muore e lascia la casa a qualcun altro, che continuerà a costruirla e nessuno finirà mai di costruirla (o di demolirla).”
La parola tedesca “costruire” è ambigua, perché lascia intendere anche la possibilità del suo contrario.
La filosofa animatrice della scuola di Budapest, che allora raggruppava alcuni dei migliori intellettuali del dissenso ungherese, voleva sottolineare così che gli esseri umani che sono gettati nel mondo (espressione resa famosa da Heiddeger) ereditano pensieri e comportamenti che a loro volta rielaborano per poi consegnarli alle generazioni successive. Ma la costruzione non finisce mai nella storia, perché nessuno riesce ad arrivare al Vero e al Bene. È un percorso continuo, dove possiamo misurare la libertà dell’uomo, ma il cui esito può portare ad un avanzamento, come ad un arretramento. Niente è mai scontato e definitivo e tutto può venire messo in discussione.

Se oggi guardo al periodo del ‘68 e alla mia particolare esperienza, mi rendo conto di come tante conquiste di allora sono entrate nel senso comune della gente, mentre alcuni valori che una generazione intera aveva scoperto, pur tra mille contraddizioni, in questo momento non sono molto popolari.
Quando un ragazzo di un liceo mi chiede di spiegargli le differenze tra la sua e la mia generazione di solito discuto di questi punti.

Noi vivevamo con la speranza di vedere un rapido cambiamento del mondo. Coltivavamo un grande ottimismo. Tutto sembrava possibile. La parola d’ordine del maggio francese era la seguente: è solo l’inizio, continuiamo il combattimento. Con questa visione, che ci faceva credere nella possibilità di un grande salto della storia, c’era anche una ambiguità che portò alcuni al terrorismo. Poiché la meta era dietro l’angolo i gruppi più estremisti pensavano di accelerare i tempi con la conquista giacobina dell’apparato statale. Eppure, nonostante queste contraddizioni che costarono molto alla gioventù di allora, ci si muoveva con la grande fiducia di potere rapidamente cambiare tutti i nostri rapporti nella vita quotidiana, nelle relazioni tra i due sessi, nella scuola, come all’interno del mondo lavorativo.

Oggi invece sembra dominare la paura per un futuro incerto. Sembra venire meno il coraggio del rischio che accompagnò la mia generazione. Per molti non vale la pena di osare, né di sperare in un cambiamento, ma piuttosto la posta in gioco sembra solo quella della propria difesa di fronte ad un mondo che ci può inghiottire.
Se si vive con fiducia e speranza, l’approccio all’esistenza è quello della costruzione, dell’apertura all’altro, del cambiamento possibile. Quando si ha paura invece si è portati ad immaginare soltanto la distruzione. Per cambiare, sostengono alcuni interpreti di una visione apocalittica - come Steve Bannon, l’ideologo di Donald Trump che trova molti estimatori nei movimenti populisti -, bisognerebbe fare esplodere le relazioni internazionali, il multilateralismo, l’Europa, le Nazioni Unite, le stesse regole della democrazia rappresentativa. Può darsi che sia proprio un nichilismo che spieghi il successo di alcuni movimenti politici in Europa. Nulla si può fare e quindi si deve distruggere. Poi si vedrà.

Nel ‘68 ci si sentiva partecipi di ogni istanza di liberazione in tutto il mondo. Era probabilmente un internazionalismo ingenuo, poiché si guardava con speranza anche a dittatori come Mao e Fidel Castro che costruivano società totalitarie, ma in questo approccio universale ci si sentiva cittadini del mondo. Non c’era avvenimento internazionale, dall’Africa all’America Latina, che non ci riguardasse da vicino. Oggi invece sembra venire meno una visione cosmopolita del mondo con il ritorno alle piccole patrie, ai sovranismi, al proprio orticello. È il mondo che ci circonda che diventa una minaccia, che mette in pericolo le nostre identità. È un capovolgimento quasi epocale. Prima il valore era la contaminazione, l’apertura al diverso, il gusto di costruire un mondo assieme agli altri. Si viaggiava per andare a vedere le fabbriche, per incontrare gli operai, per conoscere i popoli perseguitati, per cambiare se stessi, poiché questo era lo spirito del viaggio; oggi nonostante i social network, la rivoluzione delle comunicazioni, la possibilità di viaggiare nel mondo a poco prezzo, la preservazione di sé e del proprio ego sembra essere la massima espressione della libertà. Di conseguenza dobbiamo mettere i nostri interessi al di sopra di quelli degli altri, come ci spiegano i proclami dei populisti. Così dalla Brexit si è passati all’ American first di Trump, ai nazionalismi autocentrati in Ungheria e in Polonia, alla difesa degli italiani di Salvini.

Sembra allora evaporare quell’ideale di pace che, pur con tante ingenuità, aveva mobilitato la mia generazione che aveva immaginato la fine dei conflitti in Europa e nel mondo. Oggi invece ritorna in auge la cultura del nemico, della forza, della contrapposizione. Così in nome della difesa dei propri interessi sembra di nuovo legittimo pensare a dei conflitti tra le nazioni. Una tendenza che se non viene boccata può riproporre persino l’ideale della guerra come necessità.
Chi avrebbe mai pensato di vedere la maggioranza del nostro Parlamento applaudire un ministro che invece di cercare una cooperazione con la Francia sulla questione dei migranti propone l’annullamento di un vertice tra i due Paesi, con parole pesanti di un’altra epoca.
La nostra generazione aveva guardato all’emancipazione dei popoli del terzo mondo, all’Africa, all’Asia, con l’idea che fosse necessario superare le diseguaglianze e promuovere lo sviluppo di quella parte del mondo che l’Occidente aveva colonizzato. Errori non erano mancati quando in nome di una responsabilità dell’Occidente si erano giustificati regimi antidemocratici e si taceva sulle violazioni umane, o si accettavano violenze inaccettabili nel percorso di liberazione. Un esempio fra i tanti era la giustificazione del terrorismo palestinese.
Oggi invece il Terzo mondo che entra in Europa con i suoi migranti, a seguito di guerre e di cambiamenti climatici, viene visto come la minaccia che porterà alla distruzione della nostra civiltà.

Il problema non è più quello di una costruzione di una solidarietà nei confronti dei Paesi più poveri, ma quello di cementare una solidarietà europea per bloccare l’immigrazione. Ecco perché Salvini si trova a proprio agio con la Le Pen in Francia e con Orbán in Ungheria. Non si pensa di gestire l’accoglienza con una responsabilità comune che non faccia cadere l’onere su Italia e Grecia, ma di respingere in blocco l’arrivo dei profughi. Non si parla di cosa fare per aiutare l’Africa, ma come liberarci dell’Africa.
Così la condizione umana nel terzo mondo non è più un problema di coscienza, ma si trasforma nel maggiore pericolo per il nostro futuro.

Niente in questo quadro contraddittorio dell’oggi è scontato. Le conquiste di ieri non possono venire cancellate improvvisamente. Ma come intuiva Goethe, è in questi momenti che si decide se è il tempo della costruzione o della demolizione della nostra casa. Ecco perché vale la pena di ripensare il '68, senza cadere nella retorica e nella nostalgia.

Gabriele Nissim

Analisi di Gabriele Nissim, Presidente Fondazione Gariwo

14 giugno 2018

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