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La memoria e la dimenticanza

di Francesco M. Cataluccio

Nel guazzabuglio della nostra storia (che sembra sempre più simile, come notava lo scrittore Gustaw Herling, a un “cane sfuggito alla catena”) si incrociano accadimenti che apparentemente hanno poco a che fare l’uno con l’altro. Nel pieno di una pandemia, che ha accomunato, e sta ancora colpendo, tragicamente (come non accadeva dalla fine dell’ultima Guerra Mondiale) quasi tutto il mondo, si è verificata negli Stati Uniti, causata dall’efferata uccisione di un uomo di colore da parte di un poliziotto bianco, una ripresa, con più forza, della campagna contro i monumenti dedicati a figure in qualche modo legate al razzismo e allo schiavismo (Cristoforo Colombo compreso). Da lì, alla velocità di un mondo ormai globalmente compresente, l’“ondata iconoclasta” si è diffusa in molte altre nazioni. In Italia ne è stato soprattutto “vittima” il brutto e immeritato, a mio parere, monumento al giornalista Indro Montanelli nei Giardini di Porta Venezia a Milano. In questo caso, e non senza ragione, alcune frange del movimento femminista hanno voluto colpire con lanci di vernice rossa colui che, per sua stessa ammissione, comprò, in epoca di colonialismo fascista, una ragazzina etiope per soddisfare i suoi appetiti sessuali. Da questo episodio, anche nei nostri stanchi giornali e nei sempre più vacui dibattiti televisivi, è ricominciata una discussione sui monumenti e sulla memoria.

Un monumento è un documento, ha scritto lo storico francese Jacques Le Goff, (Documento/Monumento, Enciclopedia Einaudi, vol. 5). La testimonianza di un fatto che si è deciso (mai all’unanimità!) di considerare degno di memoria e di lezione/ammonimento per le generazioni future. Un documento che serve agli storici della mentalità per ricostruire un particolare sentire (che è quasi sempre quello dei vincitori o dei rappresentanti di una cultura in quel momento egemone). Questo ovviamente non ha nulla a che fare con un’oggettiva (sempre che sia possibile) valutazione del valore di un personaggio. Né tanto meno con la Verità, che in greco antico significava: non-dimenticanza (áletheia).

I monumenti hanno molto a che fare con la nostalgia. Nel linguaggio comune la nostalgia è quel particolare moto di commozione per il passato, per ciò che si è vissuto, ma anche che non si è vissuto, se non retrospettivamente, ovvero come rimpianto, che è diventato tipico della cultura contemporanea. Mentre nel passato la nostalgia designava uno spazio e un paesaggio concreti, le nozioni contemporanee designano soprattutto persone (o le loro immagini, o ancora i loro sostituti simbolici) e una persistenza soggettiva del passato vissuto (cfr. Jean Starobinski, La leçon de la nostalgie (1966), in Id., L’Encre de la mélancolie, Éditions du Seuil, Paris 2012; tr. it., La lezione della nostalgia, in Id., L’inchiostro della malinconia, Einaudi, Torino, 2014). I monumenti, in quanto appunto “sostituti simbolici” del nostro rimpianto per qualcuno o qualche fatto accaduto, sono la rappresentazione di una memoria nostalgica che nulla ha a che fare con la verità storica. Per questo motivo i monumenti sono sempre stati oggetto di attacchi e distruzioni, in occasione di rivoluzioni, controrivoluzioni, cambiamenti del comune sentire o obbiettivi dello sfogo della rabbia di alcuni gruppi di persone. Interpellata dal New York Times, Erin L. Thompson, docente al John Jay College of Criminal Justice, che ha dedicato la carriera allo studio delle ragioni che portano la gente a distruggere deliberatamente le icone del retaggio culturale, ha detto: “Come storica dell’arte, io so che la distruzione è la norma e la conservazione è la rara eccezione”. Facendo parte delle mille controversie e conflitti che caratterizzano la Storia, i monumenti sono quindi destinati ad essere abbattuti. Adriano Sofri ha quindi ironicamente sostenuto: “È dovere dei governi e delle autorità pubbliche continuare e moltiplicare l’erezione di statue, in considerazione delle generazioni future. Le generazioni future non devono restare senza niente da abbattere. Innalziamo statue. Investiamo sull’avvenire in cui, più o meno remoto che sia, esse saranno abbattute o demolite o almeno traslocate in qualche periferia. È infatti un futile pregiudizio che si innalzino statue per assicurare un’immortalità: da 40mila anni le statue servono solo a prolungare il tempo degli umani e specialmente dei più notabili e potenti fra loro. I quali, a differenza della moltitudine degli anonimi (almeno fino a quando non è stato universalizzato il quarto d’ora di notorietà) sono destinati a una doppia mortalità: prima in quanto corpi, poi in quanto statue” (A. Sofri, Anche le statue muoiono, in “il Foglio”, 29/VI/2020).

Si parla ovviamente di statue agiografiche: monumenti dedicati a uomini politici ed eroi militari. Altro discorso va fatto per i monumenti che ricordano le Vittime, i Giusti e i benemeriti della Cultura. Oltre a statue in ricordo di chi è stato ammazzato, torturato, bruciato vivo, o ha salvato altre persone, le piazze delle città e dei paesi dovrebbero essere piene di monumenti dedicati a poeti, musicisti, artisti, filosofi. Oppure abbellite con opere d’arte (trovo bellissima, ad esempio, a Milano, la statua del dito indice, opera di Maurizio Cattelan, davanti alla vecchia sede della Borsa). I monumenti che ricordano personaggi politici storici (quando non siano delle opere d’arte degne quindi di esser collocate nei musei), dovrebbero essere rimosse e collocate in appositi parchi. Immaginate, ad esempio, tutte le statute equestri di Vittorio Emanuele o Garibaldi come potrebbero abbellire un prato in una spettacolare cavalcata di bronzi. Come è accaduto, nell’Europa dell’Est, dove tutti i Lenin o i Marx, e altri “eroi del socialismo”, sono stati tolti dai loro piedistalli e raggruppati in parchi tematici. Queste statue, che a sempre meno persone ricordano qualcosa, hanno così l’opportunità di una nuova, e più tranquilla, vita, al riparo degli attacchi degli iconoclasti (ho scritto in proposito un articolo sulle “vicissitudini”, in una piazza di Varsavia, della statua di Feliks Dzierżyński, fondatore della famigerata Čeka, la polizia politica bolscevica: cfr. Il monumento a Felice, in “Antinomie”, 16/VII/2020).

I monumenti, in quanto rappresentazioni, in fondo hanno a che fare solo marginalmente con la Memoria. La memoria condivisa è un’utopia. E anche la Verità storica. Ricordo che lo storico del medioevo Bronisław Geremek, uno degli uomini politici polacchi più impegnati nella battaglia per la democrazia e l’integrazione europea, mi raccontò delle fallimentari riunioni, agli inizi degli anni Novanta, di una commissione di valenti storici dei vari Paesi europei, nel tentativo di trovare un accordo per una storia comune europea. Nel 1992 si tentò di produrre un testo scolastico di storia su scala europea, radunando un gruppo di dodici storici in rappresentanza di altrettanti Stati europei. Il risultato è stato un fallimentare libro, pubblicato in francese nell’edizione originale: la Storia dell’Europa. Popoli e Paesi. Nonostante le Raccomandazioni per i Professori di Storia, emanate nel 2001 dal Consiglio d’Europa, ci si è dovuti accorgere che, proprio a partire da quell’anno, l’interesse politico per un approccio storiografico di tipo nazionale andava rapidamente crescendo nei curricola scolastici di molti Paesi, con una conseguente diminuzione d’interesse per le tematiche europee. Dopo secoli di guerre e massacri, confini che si sono spostati decine di volte, la Memoria degli europei è frammentata come i linguaggi dopo il crollo della Torre di Babele. È impossibile avere una memoria comune e cercare di aiutarla scrivendo una Storia dell’Europa che metta d’accordo e accontenti tutti. La complessità è tale che non si fa ridurre e risolvere con dei compromessi. Non è quindi dalla Storia che si può pensare di creare una coscienza europea comune. Bisogna partire dai Valori comuni e comprendere come il Nazionalismo, facendo leva sulla Memoria e sulla Lingua, ha sì generato, alle origini, emancipazione, autonomia e indipendenza dei popoli, creando appartenenza e identità (e monumenti!), ma i suoi prodotti peggiori, lo stato nazionale, il populismo, il totalitarismo, hanno assunto l’altro, il diverso, prima come straniero poi come nemico, e infine gli hanno negato, con la discriminazione razzista e la guerra, il diritto ad esistere. Il nazionalismo ha portato ad Auschwitz, Hiroshima e Nagasaki e a Srebrenica.

Gli storici Anna Foa e Marcello Flores, nei loro interventi sulle pagine di Gariwo, dibattendo sulla Memoria, hanno toccato il tema dell’Olocausto e dell’idea che esso sia stato un evento unico. Ma lo sterminio degli ebrei non è stato l’unico evento del genere nel Novecento. La teoria dell’”unicità dell’Olocausto” ha delle comprensibili ragioni politiche e ideologiche ma non rende giustizia delle altre grandi stragi provocate dai nazionalismi e totalitarismi. La Shoah, come notava acutamente lo storico Saul Friedlander nella coscienza israeliana, e in quella ebraica in generale, è ancora una componente psichica non elaborata (S. Friedlander, Die Shoah als Element in der Konstruktion israelischer Erinnerung , in "Babylon", 2 (1987), trad.it. La shoah come mito israeliano, in: Ebrei moderni. Identità e stereotipi culturali, a cura di D. Bidussa, Bollati Boringhieri, Torino 1989, p. 63.). Come ha sostenuto recentemente lo scrittore israeliano Abraham Yehoshua: “Nel mio ultimo romanzo, Il tunnel, pubblicato in Italia da Einaudi, il protagonista perde la memoria e si tatua sul braccio i numeri dell’antifurto della macchina. È una dissacrazione. Noi ebrei dobbiamo diminuire l’intensità della memoria. Che non significa dimenticare; significa guardare le cose che abbiamo intorno. Uscire dalla trappola dell’identità. Oltretutto non esiste un’identità ebraica. Ne esistono molte. Gli askenaziti e i sefarditi, i religiosi e i laici, gli ortodossi e gli ultraortodossi”. (Aldo Cazzullo, Intervista ad Abraham Yehoshua, Corriere della Sera, 11/VI/2020).

Diminuire l’intensità dei ricordi e cercare di dimenticare per non rimanere intossicati dalle proprie tragedie, come raccomandava di fare l’antropologo e saggista Tzvetan Todorov, non significa affatto cancellare la memoria del passato. Nel 1992 fu invitato dalla Fondazione Auschwitz a Bruxelles a tenere un discorso in occasione del convegno Storia e memoria dei crimini nazisti. Da quella conferenza nacque, nel 1995, un piccolo, fondamentale, libro: Gli abusi della memoria (trad. it. Meltemi, Sesto San Giovanni 2018). Vi si sostiene che dalla fine del Novecento a oggi, gli europei appaiono ossessionati dal culto della memoria: ci si sforza perché non venga mai meno il ricordo. Ma che senso ha il suo uso senza uno spirito critico e una rielaborazione che ci consenta di individuare le sempre nuove forme di razzismo, di xenofobia e di esclusione? Il ricordo è una mera celebrazione, solo un conteggio e una spartizione delle vittime, oppure l’autentica comprensione e l’impegno per non commettere altri errori? La memoria è minacciata non tanto dalla cancellazione delle informazioni, ma proprio dal contrario: la sovrabbondanza (soprattutto oggi con l’immensa massa di informazioni accessibili tramite Internet). Siamo diventati dei volonterosi attivisti dell’oblio, non tanto e non solo nelle dittature ma anche nei regimi che si considerano democratici. Tutti sembrano avere il medesimo obbiettivo: cancellare la memoria. Essa invece non è opposta nettamente all’oblio, come si crede comunemente: i due termini in opposizione sono piuttosto la cancellazione (l’oblio) e la conservazione. La memoria include in sé l’oblio ed è il risultato dell’interazione tra le due istanze: “Il culto della memoria non serve sempre la giustizia: non è nemmeno favorevole alla memoria stessa. (…) Oggi non ci sono più rastrellamenti di ebrei, né campi di sterminio. Noi dobbiamo tuttavia mantenere viva la memoria del passato: non per chiedere risarcimenti per l’offesa subita, ma per essere attenti a situazioni nuove e tuttavia analoghe. Il razzismo, la xenofobia, l’esclusione che colpiscono gli altri non sono identici a quelli di cinquanta, cento o di duecento anni fa; nondimeno dobbiamo, in nome di questo passato, agire sul presente”.

Primo Levi rifletté con onestà, pur con tormento, su questa questione. Inizialmente sostenne l’unicità dell’Olocausto: “I Lager tedeschi costituiscono qualcosa di unico nella pur sanguinosa storia dell'umanità: all’antico scopo di eliminare o terrificare gli avversari politici, affiancavano uno scopo moderno e mostruoso, quello di cancellare dal mondo interi popoli e culture. A partire press’a poco dal 1941, essi diventano gigantesche macchine di morte” (P. Levi, Appendice a Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1976, p. 245). Questa unicità rendeva diversi i Lager dai Gulag: “Nei Gulag la morte era in qualche modo accidentale, avveniva per il freddo, per la fame, per la fatica, ma non era l’obbiettivo. Mentre la novità finora unica, perché non credo che si sia ripetuta mai, salvo forse in Cambogia, lo scopo dello strumento Lager nella Germania di Hitler era proprio quello di uccidere. Erano macchine per uccidere in cui invece si capovolgeva il lavoro servile, che era un sottoprodotto. Il prodotto principale era la morte e questo mi pare vada ripetuto, non per scagionare Stalin né i suoi successori, ma solo per segnare una differenza che ha la sua importanza" (P. Levi, Conversazioni con Gozzi , in Primo Levi , "Riga" n. 13, a cura di M. Belpoliti, Marcos y Marcos, Milano 1987, p. 95).

Nel libro che può essere considerato il suo testamento, I sommersi e i salvati (1986) Levi spese tutte le sue energie alla ricerca della verità, oltre la retorica di interpretazioni dettate da necessità politiche: “Ho voluto riprendere quel tema per bisogno di verità, per andare contro la retorica. (...) Sono disposto a tollerare una certa quantità di retorica, è indispensabile per vivere. Abbiamo bisogno di monumenti, di celebrazioni: e un monumento nella sua etimologia, vuol dire ammonimento. Però occorre un controcanto, un commento in prosa ai voli della retorica: io ha cercato di farlo sapendo di ledere alcune sensibilità. Sono temi abbastanza tabù" (G. Calcagno, Primo Levi: capire non è perdonare, "Tuttolibri", 26/VII/1986). Di fronte ai massacri in Cambogia (“dove per puro fanatismo ideologico un popolo ha distrutto la metà di se stesso, nel silenzio del mondo”), Levi giunse a mettere in discussione l’unicità e l’irripetibilità dell'Olocausto, e sembrò non più tanto sicuro riguardo all’ impossibilità di un "ritorno di Auschwitz": “Non credo che in Europa ci si tornerà, almeno in un tempo prevedibile. Ma che la minaccia esista è evidente. Il poco che sappiamo sulla Cambogia ricorda in modo pauroso quanto è successo in Germania” (G. Calcagno, Primo Levi: capire non è perdonare, cit.).

Quanto ai Gulag, aveva ragione lo studioso di letteratura russa Vittorio Strada quando sosteneva: "Uno dei più tremendi crimini del XX secolo, l’Olocausto, è stato oggetto di un numero assai alto di documentazioni e analisi, restando al centro dell'attenzione, e della deprecazione, come lo era stato nei decenni precedenti. Invece, il Gulag, un crimine analogo, per quanto dotato di una sua peculiarità, ma anche più grave del precedente in senso quantitativo, cioè per numero di vittime e per durata ed estenzione, non occupa nell’attenzione pubblica e nelle ricerche storiche un posto paragonabile a quello dell'Olocausto, anzi tende gradatamente a uscire dalla sfera degli studi, nonché da quella della condanna” (V. Strada, L'istintiva pulsione a rimuovere l' arcipelago Gulag, in "Liberal", n. 26, Roma 1997, p. 75).

Mettere in discussione l’unicità dell’Olocausto non significa affatto sminuire la sua tragica portata. Lo fanno gli antisemiti odierni o i nazionalisti che vogliono occultare le complicità del proprio paese o pretendere una sorta di ridicolo primato delle vittime. In Polonia, ad esempio, nei media dell’estrema destra, ma anche su Wikipedia, si parla con enfasi dell’esistenza all’interno del campo di concentramento di Varsavia (il Konzentrationslager Warschau) di un campo di sterminio dove sarebbero stati assassinati migliaia di polacchi (200 mila, si dice). Il luogo di questo campo, vicino alla stazione ferroviaria di Warszawa Zachodnia, è meta oggi di pellegrinaggio e vi si tengono periodiche cerimonie di commemorazione. Il problema è che lì non è mai esistito alcun campo di sterminio di polacchi e che non ci sono prove storiche dell’esistenza di camere a gas a Varsavia. La complessa operazione che ha portato alla diffusione di queste false notizie ha a che fare con la propaganda dell’estrema destra, con la volontà di minimizzare l’Olocausto e di dare rilevanza al cosiddetto “Polocausto”. Al fatto cioè che anche i polacchi furono vittime del nazismo: tanto quanto gli ebrei.

La prima fonte di tutte queste false notizie sembra essere stata la giudice Maria Trzcińska, che negli anni Settanta lavorò per la Commissione del governo comunista che indagava i crimini nazisti in Polonia. Secondo Trzcińska il tunnel della strada Józef Bem, vicino alla stazione ferroviaria di Warszawa Zachodnia, a Varsavia, era stato utilizzato come una gigantesca camera a gas. La tesi, a seguito di una serie di indagini fatte dall’Istituto nazionale per la memoria (l’IPN, creato nel Paese dopo la caduta del regime comunista) è stata completamente smontata e si è scoperto, ad esempio, che i pozzi di ventilazione (una delle presunte e fondamentali prove per sostenere la storia della camera a gas) erano stati installati solo negli anni Settanta. Come ha sostenuto, sulle pagine di Haaretz Havi Dreifuss (docente all’Università di Tel Aviv ed esperta di storia dell’Olocausto): “Stanno cercando di equiparare quello che è successo agli ebrei durante l’Olocausto a quello che è successo ai polacchi durante l’Olocausto. Con l’obiettivo di minimizzare l’Olocausto stesso ed esagerare il cosiddetto Polocausto, termine usato per descrivere l’omicidio di massa di polacchi non ebrei da parte dei nazisti”.

Il premio Nobel per la letteratura, il polacco-lituano Czesław Miłosz, pubblicò clandestinamente, nel 1944, una bellissima poesia intitolata Campo dei fiori (Cz. Miłosz, Poesie, a c. di P. Marchesani, Adelphi, Milano, 1983). Ricordando la famosa statua di Giordano Bruno nella piazza di Roma rifletteva sulla solitudine di coloro che morirono ammazzati dai tedeschi, nel 1943, nel Ghetto di Varsavia tra l’indifferenza di quasi tutta la popolazione. Nel 1993, in occasione del Cinquantesimo anniversario della rivolta del Ghetto di Varsavia, si tenne a Cracovia, nella sede della rivista Znak (Segno), una discussione attorno a quella e altre sue poesie sullo sterminio degli ebrei, con alcuni intellettuali polacchi dell’opposizione e il leggendario comandante dell’insurrezione del Ghetto di Varsavia, Marek Edelman (Jan Błoński, Marek Edelman, Czesław Miłosz, Jerzy Turowicz, Ludzkość, która zostaje, L’umanità che rimane, in: “Palimpsest”, 15/V/2020). Miłosz allora sostenne di non leggere più quelle vecchie poesie durante gli incontri negli Stati Uniti (dove risiedette e insegnò all’Università di Barkeley dal 1958 alla fine degli anni Ottanta) perché “gli americani pensano che i polacchi siano tutti antisemiti”. Intervenne Marek Edelman, con la sua solita schiettezza, e disse: “Lessi quella poesia venti anni fa e la interpretai in modo del tutto diverso da oggi. Allora quella per me era una poesia che parlava del periodo della guerra (il nazismo, il ghetto, ecc). Oggi non mi pare una poesia sul Ghetto. Non parla di ciò che accadde a Varsavia. È una poesia sull’umanità, su quello che succede alle persone. Dopo cinquant’anni ne abbiamo molti di più di quegli olocausti (non voglio stare qui a nominarli). E bisogna rendersi conto che questa è la vita umana. È questo è ciò che c’è nell’uomo. Quella poesia non riguarda quattro milioni di ebrei, che furono ammazzati qui. Riguarda l’essere umano, riguarda tutta l’esistenza, la cui natura è questa qua”.

A continuazione del dibattito sulla "unicità della Shoah", il contributo di Francesco M. Cataluccio apparso su Il Foglio il 23 agosto 2020.

Francesco M. Cataluccio

Analisi di Francesco M. Cataluccio, Responsabile editoriale della Fondazione Gariwo

21 luglio 2020

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