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La memoria, un esercizio di introspezione

di Enrico Fink

Zakhor!

Il comandamento biblico di ricordare assume a volte forme assai strane.

È uso durante la lettura della Meghillàt Estèr, a Purim, cerimonia ebraica della memoria per eccellenza, fare un gran frastuono per coprire il nome del perfido Hamàn, che non si abbia neanche a sentire. E com'è ovvio, il risultato è... che è proprio il nome del cattivo, quello che tutti attendono e cercano con più attenzione di riconoscere durante la lettura. Viene da pensare a un altro personaggio negativo, anzi, il “cattivo” per antonomasia, quell'Amalèk che ci è intimato di ricordare, in Deuteronomio 25:17. Appena due versi dopo, in 25:19, il testo conclude con uno dei più celebri ossimori che mai siano stati scritti (se poi di ossimoro si tratta): “...cancella il ricordo di Amalèk da sotto il cielo. Non dimenticare!” Dimenticare cosa? Di cancellare il ricordo? Ma se davvero lo facessimo, come potremmo poi ricordare? E comunque, confrontando gli imperativi dei due versetti, cosa ne dobbiamo dedurre? Amalèk va ricordato o dimenticato?

La storia ci pone di continuo, purtroppo, di fronte a quesiti analoghi, con nuovi Amalèk e nuovi Hamàn. Anna Foa si chiedeva, qualche settimana fa su queste pagine, se gli sconvolgimenti legati alla pandemia possano diventare una memoria capace di farne dimenticare un'altra, e in particolare quella, per certi versi fondativa della nostra convivenza civile, della Shoah. I due eventi, la crisi legata al COVID-19 e lo sterminio sistematico di minoranze e oppositori nell'Europa nazifascista, sono apparentemente grandezze incommensurabili, entità non paragonabili, e paiono muoversi in spazi che non hanno punti di contatto. Eppure, io credo davvero che l'esperienza del lockdown metta in gioco alcuni meccanismi che stanno alla base della nostra difficoltà di ricordare, o ricordare bene. E c'è un filo sottile (ma non poi tanto) che unisce la pandemia alle polemiche apparentemente disgiunte che l'hanno seguita nel pubblico agone dei giornali e dei social media – l'azione a volte distruttiva nei confronti di qualunque cosa venisse percepita come simbolo di culture razziste, seguita alla bestiale uccisione di George Floyd, con la sua appendice italiana legata alla statua a Montanelli; la rinnovata controversia intorno alla political correctness, sfociata in una lettura parziale e anche qui, tutta italiana, di una pubblica lettera di intellettuali apparsa di recente sullo Herald Tribune. Non solo. La riflessione di Anna Foa pone un problema concreto e ineludibile: come affrontare il progressivo trasformarsi della memoria, in particolare relativamente al tema della Shoah. Come porsi di fronte a nuove memorie, che sovrapponendosi alle antiche, portano a dimenticarle, almeno in parte.

Nella seconda edizione inglese del suo celeberrimo saggio del 1982 che aveva per titolo lo stesso imperativo ebraico usato per incipit di questa pagina, Zakhor, Ricorda, Yosef Hayim Yerushalmi aggiunse un testo dal titolo “Reflections on Forgetfulness”, riflessioni sul dimenticare. Affermando che nella tradizione ebraica esiste qualcosa che ha agito da guida su cosa ricordare e cosa dimenticare. E questo qualcosa è la halakhà, intesa non (solo) come insieme delle leggi ebraiche, ma come percorso, a partire dal significato della radice verbale dalla quale la parola deriva. “Solo la storia che era rilevante nei confronti del sistema di valori della halakhà fu ricordata. Il resto fu ignorato, 'dimenticato'”. A noi, al pensiero laico occidentale, manca una halakhà in questo senso, riflette Yerushalmi: una guida che ci dica cosa dimenticare e cosa ricordare. Nel dubbio, meglio abbondare e rischiare l'ipertrofia della storiografia, tema di cui più volte si parla nel volume: meglio cercare di ricordare tutto, pur sapendo che il rischio è quello di una perdita di significato della storia in generale. Ma è proprio questo, in qualche modo, lo stesso interrogativo postoci da Anna Foa. Che criterio proporre per scegliere fra le memorie, per non rischiare che nuovi eventi traumatici cancellino i precedenti? Non ho la pretesa di fornire una risposta. Ma credo che se una “halakhà laica” del pensiero occidentale si potrà trovare, capace di dirci cosa e come ricordare, questa non sarà funzionale all'oggetto della memoria, avrà a che fare con la consapevolezza del carattere riflessivo e introspettivo del ricordo.

Mi spiego. Lavoro molto ogni anno intorno al 27 gennaio, quando innumerevoli scolaresche vengono esposte, a volte in maniera coerente ed efficace, a volte no, all'appuntamento annuale col ricordo della Shoah. La difficoltà che più spesso incontro, lo sforzo principale che mi trovo a fare, è quello di far capire non solo ai ragazzi, ma spesso anche a chi li accompagna, e non di rado anche a chi sta con me dalla parte dei formatori o degli “esperti” (termine mai come in questo caso agghiacciante), chi e che cosa stiamo ricordando. No, non stiamo ricordando gli ebrei. Non stiamo ricordando i Rom e Sinti trucidati accanto a loro. Non stiamo ricordando gli omosessuali, non i disabili, non gli oppositori politici dei regimi dell'epoca. Non stiamo ricordando le vittime. Altre occasioni ci sono che meglio possono servire a questo pur nobile imperativo. Oggi, mi sforzo di spiegare, bisogna spostare la nostra attenzione dall'altra parte del filo spinato. Stiamo ricordando i carnefici, e i loro complici. Non gli uccisi, non i perseguitati: stiamo ricordando tutti gli altri, o meglio, come sia stato possibile per la nostra collettività trasformarsi in una collettività di assassini. Perché quei carnefici e quei complici siamo noi, noi europei, noi italiani, dico togliendomi il cappello dell' “esperto ebreo”. Per questo oggi abbiamo l'obbligo di ricordare. Dove starebbe, altrimenti, la famosa “unicità” della Shoah, di cui anche qui su queste pagine si è di recente parlato? Se questa unicità fosse da ritrovare nel numero, nella modalità di selezione e di rastrellamento delle vittime, allora saremmo davvero condannati a una orrenda “misurazione” dei genocidi che, purtroppo, hanno attraversato (e continuano ad attraversare) la storia. Avremmo difficoltà a spiegare questa unicità a un superstite del conflitto ruandese, o serbocroato, o siriano, a dire il vero a qualunque vittima di qualunque azione violenta e criminale: perché il dolore individuale non si misura, non fa classifiche. L'unicità non sta nelle vittime: sta nei carnefici e in chi ricorda. Sta nel fatto che noi, parte attiva del ricordo, siamo parte della storia e della cultura che quel massacro hanno perpetrato. Per noi, per noi europei e “occidentali”, quella storia è imprescindibile. La capacità del nostro mondo apparentemente civile, della culla del nostro pensiero, di farsi barbarie assoluta; la facilità con cui il pensiero filosofico, politico, scientifico ha saputo farsi abominio, non possono, non devono essere dimenticate. Per chi è figlio d'Europa, la Shoah è un crimine unico, innegabile, da cui non è possibile sfuggire.

La memoria non è riducibile all'oggetto che viene ricordato. È un esercizio riflessivo, che coinvolge anche e soprattutto il soggetto che ricorda. È un esercizio su di sé. Un esercizio di introspezione e azione su noi stessi: altrimenti è inutile, vuoto, privo di senso.

In questo modo, a esempio, andava inteso il rinnovato sdegno verso la statua a Montanelli, invece di liquidarlo con sufficienza come molti hanno fatto. Il problema non era l'oggetto, Montanelli Indro. Non era riaprire il processo alla sua condotta in quella infame guerra, nei confronti della povera Destà. Il problema siamo noi italiani. Il problema era, è, la colpevole mancanza di elaborazione del nostro passato coloniale, soprattutto in un epoca storica in cui i frutti di quel passato vengono, rumorosamente, a bussare alle nostre porte o a morire al largo dei nostri porti chiusi. La cultura italiana di oggi non può non ridiscutere una figura come quella di un proprio illustre intellettuale, storico e giornalista, alla luce di malefatte simili. Abbiamo l'obbligo di ricordare, e di agire su noi stessi, sulla nostra cultura, sì, sulle statue dei personaggi illustri del nostro passato, e persino sul nome delle caramelle o dei cioccolatini che continuano a fare mostra di sé nei banconi delle pasticcerie, con il loro nome figlio di una cultura razzista e coloniale.

Ma qui, in Italia, questi argomenti vengono liquidati con una battuta, un'ammiccare. Si sorride, come si sorride del politically correct, nei pubblici discorsi: ma lo si fa anche perché, a differenza di una comoda memoria oggettivante, che allontana da sé la “santa” vittima, l'Anna Frank di circostanza, il “povero ebreo” o il bimbo morto su una spiaggia, la pratica di educare il proprio linguaggio all'attenzione verso l'altro, di rivisitarlo in base al ricordo delle sofferenze inflitte e alla coscienza di quelle che ancora si possono infliggere, è una pratica che ci riguarda tutti, che obbliga al lavoro su di sé. Vorremmo invece avere le nostre idee, magari anche progressiste, liberal, di sinistra: ma che restassero appunto idee, che non ci costringessero a un faticoso processo di ridefinizione delle nostre parole, delle nostre categorie.

Troppo comodo.

Ecco cosa ci ha ricordato la pandemia. Con una fastidiosa insistenza ci ha mostrato che nessuno era escluso dall'azione, o inazione: nessuno poteva tirarsi fuori. Non è stato possibile ridurre la questione a un oggetto fuori da noi, come facciamo troppo spesso con ogni altra notizia che ci arriva dai giornali. Ci riguardava, volenti o nolenti, dovevamo rispondere, cambiare qualcosa della nostra condotta. Per molti di noi, un'esperienza intollerabile, come certe sconclusionate ribellioni contro le misure di contenimento stanno tutti i giorni a dimostrare. E ci ha mostrato in tutta la loro fragilità i nostri tempi e i nostri spazi, le nostre modalità di relazione. Nelle settimane di chiusura del nostro mondo conosciuto, abbiamo avuto paura, o noia, o rabbia. Abbiamo provato la vertigine di potersi guardar dentro. Un'esperienza spaventosa, che potrebbe cambiare davvero tutto.

Non so dunque come si comporrà una eventuale “halakhà laica” capace di dirci cosa e come ricordare, cosa e come dimenticare. Ma penso che fino a che saremo figli della cultura europea del '900, dovremo avere la capacità di ricordarne anche gli anni in cui si fece barbarie. Alcuni Maestri insegnano una via d'uscita dalla contraddizione fra ricordare e dimenticare Amalèk. E cioè che Amalèk non è un re biblico, un nemico da cercare fra le pagine della storia: ma qualcosa che sta dentro di noi, e che si ripresenta, si trasforma e riappare, periodicamente. Dunque questo è l'esercizio della memoria che ci viene richiesto: ricordarsene, ricercarlo dentro di noi, dentro il nostro agire, il nostro vocabolario, la nostra percezione dell'altro. E sforzarsi, per quanto sia impossibile, di cancellarlo, di rimuoverlo da noi, sapendo che prima o poi ritornerà. Ricordarlo per cancellarlo. Un'operazione infinita, difficile, per niente comoda. Spaventosa e vertiginosa, come il silenzio delle strade durante il lockdown, come ogni esercizio del ricordare che comporti cambiare se stessi. Ma è questo, biblicamente o meno, il senso più compiuto di ciò che chiamiamo Memoria.

Enrico Fink

Analisi di Enrico Fink, compositore e autore teatrale

21 luglio 2020

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