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La storia e la memoria dei genocidi

di Marcello Flores

Raphael Lemkin

Raphael Lemkin

La Carta della Memoria promossa da Gariwo è stata oggetto non solo di un dibattito aperto e aspro, ma anche di polemiche che chiamano in causa non solo la riflessione interna al mondo ebraico ma di chiunque abbia a cuore la centralità della Shoah come evento tragico e cruciale dell’intera contemporaneità, da comprendere e da trasmettere non solo come memoria, individuale e collettiva, di chi ne è stato direttamente colpito, ma come storia che riguarda l’umanità intera, anche se ha prevalentemente riguardato l’occidente.

L’accusa principale, come ha scritto ad esempio su Bet Vittorio Robiati Bendaud, è quella di volere «tenere insieme», anche e soprattutto nella Giornata della Memoria, «tutti i genocidi, ogni sorta di violenza, le pandemie e altri disastri naturali». Su quest’ultima affermazione traspare un’indignazione di tipo «scientista» che contrappone «tragedie volute e perpetrate da esseri umani» con una «”natura” né buona né cattiva, né ospitale né crudele, ma semplicemente se stessa, come ammoniva Leopardi».

Leopardi, in realtà, aveva intuito con grande acume e profondità, e anticipo, la relazione esistente tra uomo e natura, tanto è vero che in un passo della Ginestra, l’ultimo suo grande contributo, poteva ricordare come

l’umana compagnia,
tutti fra sé confederati estima
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor, porgendo
valida e pronta ed aspettando aita
negli alterni perigli e nelle angosce
della guerra comune

da combattere contro la natura matrigna. Nel documento di Gariwo solo un maldestro e malevolo atteggiamento può vedere un’equiparazione tra genocidi e pandemie, visto che di queste ultime si auspica una «costante informazione» dal momento che – ecco la relazione tra natura e uomo – «possono provocare migrazioni, conflitti e tragedie» impensabili e incontrollabili.

Robiati Bendaud se la prende con la citazione di Y. Bauer che, per la Shoah, parla di genocidio senza precedenti nella storia, ricordando i «precedenti» degli herero e degli armeni, le deportazioni di milioni di africani. Su questo tema il dibattito storico è ancora aperto e sono in molti, anche studiosi di valore, a rifiutare il giudizio di Bauer: ma caso mai per accentuare la comparazione, non per contrapporre al «senza precedenti» «l’unicum dell’antisemitismo nel suo plurisecolare multiforme declinarsi». La «specificità» della Shoah, per Robiati Bendaud, è la colpa di essere nati in un popolo la cui distruzione «doveva essere universale». In realtà la distruzione, totale o parziale, di un gruppo «in quanto tale» è il cuore della Convenzione sul genocidio del 1948, insieme alla «intenzione» di realizzarla e portarla a compimento: ed è questo doppio e basilare aspetto – l’intenzione di colpire un gruppo in tanto quale – non a essere specifico della Shoah (lo è stato di altri genocidi, pensiamo solo all’ultimo degli yazidi), ma a essere stato individuato, scoperto, fatto emergere e divenuto coscienza collettiva «grazie» alla Shoah e alla tragedia del popolo ebraico, che in quella occasione, in quell’evento è vittima di un salto di qualità che spinge dall’antisemitismo (nelle sue multiformi manifestazioni nei secoli) alla distruzione, perché si è ebrei secondo le definizioni che codifica il potere nazista.

Si sostiene, con un ragionamento contorto e paradossale, che l’universalizzazione della Shoah e delle sue vittime è pericolosa perché le priverebbe della loro identità, riducendole a vittime generiche, e che sarebbe una tendenza insidiosa perché le spersonalizza, cosa che «fu uno dei caposaldi del male genocidario». La spersonalizzazione delle vittime dei genocidi – di tutti i genocidi – consiste nel togliere a un gruppo non la propria identità, ma la propria umanità, che non viene riconosciuta perché quella identità la si vuole estirpare e distruggere, perché la si considera pericolosa, capace di avvelenare e degenerare. È l’atto del carnefice, del responsabile, del perpetratore dei genocidi che va prima di tutto combattuto, condannato e fermato: perché è un atto disumano che, colpendo un gruppo nella sua identità, colpisce l’intera umanità che è formata e si è costituita nei millenni con tante diverse identità, che non mettono e non possono mettere in discussione l’umanità di ognuno, di ogni persona.

Non c’è una parola, nella Carta della Memoria, che suggerisca di mettere la sordina al ricordo delle memorie specifiche. È vero caso mai il contrario, perché le memorie specifiche di ogni genocidio, che vanno salvaguardate, aiutate, diffuse e fatte conoscere, si comprendono meglio se si ha un’idea complessiva di cosa sono i genocidi, come si preparano, s’impongono, trovano collaboratori e carnefici, cercano di distruggerne le memorie mentre si stanno compiendo. Pensare che mettere a confronto – storicamente, per meglio comprenderli tutti – i genocidi, e inserire le loro memorie, anche insieme, in una riflessione congiunta e comparativa, sia un annacquamento della loro specificità, significa proporre, nell’epoca appena iniziata della globalizzazione, e destinata a durare a lungo e a evolversi anche se non sappiamo come, una visione provinciale e nazionale, in cui la «propria» particolare identità tende ad avere più importanza su quella, inevitabilmente universale, dell’umanità in quanto tale: e proprio quando i rischi futuri li vediamo necessariamente connessi ad aspetti globali – il clima prima di tutto, che minaccia l’esistenza della vita delle generazioni future – che non potranno fare differenza tra identità specifiche. Questo è un insegnamento che proprio un’analisi comparata, globale e universale dei genocidi ci permette meglio di sviluppare e approfondire, senza che voglia o possa significare la dimenticanza o l’annacquamento del ricordo – e della storia – di ogni singolo genocidio.

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