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Monumenti per difetto: così cambia il rapporto tra architettura e memoria

intervista ad Adachiara Zevi

Monumenti che invece di celebrare, rappresentare ed espropriare, fanno un passo indietro consentendo allo spettatore una elaborazione individuale ed originale della memoria. Discreti e non impositivi, non rassicurano ma interrogano ed inquietano. Sono i Monumenti per difetto, protagonisti del libro di Adachiara Zevi da poco uscito (Donzelli editore).
Nata a Roma, architetto e storica dell’arte, Adachiara Zevi ha insegnato Storia dell’arte nelle Accademie di Macerata, Firenze, Bologna,Milano, Palermo e Napoli e pubblicato testi sull’arte contemporanea italiana e internazionale, cataloghi e monografie di artisti. Dal 2002 cura la biennale internazionale Arteinmemorianei resti della Sinagoga di Ostia Antica e dal 2010 il progetto Memorie d’inciampo. È presidente della Fondazione Bruno Zevi e dell’Associazione Arteinmemoria. Ha collaborato dal 1987 al 2011 con il Corriere della Sera.
Nel testo l’autrice analizza i rapporti tra architettura e memoria, descrivendo alcuni monumenti, musei e memoriali che spiccano per qualità e originalità urbanistica, architettonica e artistica.


Che cosa significa ‘monumenti per difetto’, e in che modo questo concetto ha caratterizzato l’architettura del secondo dopoguerra?

Si tratta di un difetto di monumentalità, cioè dell’assenza di alcune prerogative generalmente attribuite ai monumenti, come unicità, staticità, ieraticità, persistenza, ipertrofia dimensionale, simmetria, centralità, retorica, indifferenza al luogo, eloquenza. Spesso i monumenti descrivono troppo e ci espropriano così della possibilità di elaborare originalmente il ricordo che finiamo con il delegare al monumento. Il libro è anche “difettoso” perché non è una ricostruzione esaustiva di tutti i monumenti e memoriali esistenti, ma piuttosto una selezione parziale e settaria di casi esemplari scelti secondo i criteri della sobrietà, afasia, sottrazione e modernità.
Il libro è uscito in concomitanza del 70° anniversario dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, il 24 marzo, e dedica il primo capitolo al Mausoleo costruito per ricordare la strage, frutto del primo concorso bandito all’inizio del ’45 nella Roma liberata.


Perché ritiene che il Mausoleo delle Fosse Ardeatine a Roma sia un punto di svolta nel rapporto tra architettura e memoria?

Il Mausoleo, un capolavoro purtroppo poco conosciuto in Italia e per nulla all’estero, è il punto di partenza della mia analisi, perché per la prima volta un monumento non è un oggetto unico, statico, da contemplare, ma un percorso da fruire dinamicamente attraverso una serie di episodi, che corrispondono alla storia che il Mausoleo vuole evocare. Noi ripercorriamo cioè il tragitto compiuto dalle vittime, da quando sono state scaricate dai camion nel piazzale di ingresso, spinte nelle gallerie, trucidate e seppellite sotto una coltre di macerie per occultare la strage, fino alla sepoltura nel sacrario. Tutti gli episodi ruotano intorno al piazzale che è il vero fulcro del monumento. Mentre generalmente il monumento occupa il centro dello spazio, in questo caso il centro del monumento è il vuoto del  piazzale e gli episodi che lo compongono si dispongono intorno rispettandone la conformazione irregolare. Le gallerie ipogeiche dove ha avuto luogo l’eccidio, il sacrario sopraelevato, le meravigliose cancellate di Mirko Basaldella e la statua realista di Francesco Coccia con i tre prigionieri con le mani legate dietro la schiena,  hanno tutti lo stesso peso, nessuno prevale sull’altro perché ognuno gioca il suo ruolo  preciso nel piccolo sistema urbano del monumento. E questo consente la convivenza di linguaggi così diversi senza scadere nell’eclettismo o nel pastiche stilistico. Già all’indomani della Liberazione di Roma, quando il governo prese il solenne impegno di erigere un monumento sul luogo dell’eccidio e quando i famigliari hanno preteso il riconoscimento prima della sepoltura, il Mausoleo è assurto a simbolo della resistenza al nazi-fascismo.


Come si è evoluta l’architettura della memoria dopo questa fondamentale opera?

Il passo successivo alle Fosse Ardeatine è il Memoriale per gli ebrei assassinati in Europa (Denkmal fuer di ermordeten Juden Europas) di Peter Eisenmann a Berlino, perché riprende ed estende il carattere urbano del monumento. Se alle Fosse Ardeatine il percorso si snoda attraverso quattro episodi (le cave, il sacrario, la statua, le cancellate) all’interno di uno spazio comunque circoscritto e chiuso, da visitarsi in ore stabilite come un Museo, il Memoriale di Eisenman è un pezzo di città aperto, in cui ci si imbatte camminando per il centro e il Tiergarten, visitabile senza chiedere permessi o pagare biglietti.  All’improvviso si è risucchiati dalla selva di stele tutte uguali ma tutte di altezza e pendenza diversa, piantate su una griglia ondulata, sbilenca, asimmetrica, ci si ritrova angosciosamente soli con se stessi, senza punti di riferimento e vie d’uscita, costretti  a compiere un percorso di memoria individuale. L’opera è frutto di un iter molto sofferto durato dal 1988 al 2005, con due concorsi e una serie di vicissitudini, come la rinuncia di Richard Serra, co-autore con Eisenmann del progetto originario e contrario alle modifiche imposte, soprattutto la drastica diminuzione del numero dei pilastri e della loro altezza e l’aggiunta di un Centro informazioni sotterraneo. Come nel Museo Ebraico  di Daniel  Libeskind a Berlino (Juedisches Museum Berlin), l’arte e l’architettura non si limitano a contenere cosa ricordare ma lo fanno rivivere direttamente attraverso  gli spazi, i percorsi, le aperture, i bilichi e il disorientamento.


Arriviamo al contro-monumento, o monumento a scomparsa, la cui sparizione è prevista dalla sua stessa concezione. Nel libro è citato il commento dello storico americano James Young: “una volta che assegniamo una forma monumentale alla memoria, spogliamo in un certo grado noi stessi dall’obbligo di ricordare”. Vuol dire che il monumento ha esaurito la sua funzione?

È un’opinione largamente condivisa da artisti, storici, architetti e studiosi di cultura ebraica. Il contro-monumento, la scelta più radicale,è  il tipo di realizzazione più consona alla cultura ebraica, perché l’ebraismo è una religione anti-idolatrica, che mette al centro la responsabilità individuale, la tradizione orale, il libro, il commento e l’interpretazione continua.  Il monumento tradizionale invece spinge all’idolatria, perché lo si venera, ci commuove e fa piangere. Nel mio libro descrivo invece esempi che riducono al minimo l’ingombro materiale e l’espressività limitandosi molto spesso alla scrittura del nome attraverso il quale perpetuare la memoria delle persone scomparse. 


Ultima tappa, il monumento diffuso, rappresentato dagli Stolpersteine, o ‘pietre d’inciampo’: è una modalità espressiva più efficace per conservare la storia e la memoria?

A chiudere questo percorso parziale di 70 anni di storia dei “monumenti per difetto” ci sono gli Stolpersteine (termine tedesco che significa ‘pietre d’inciampo’, ndr.) - geniale invenzione dall’artista tedesco Gunther Demnig nel 1993 - disseminati già in 45.000 esemplari in 17 paesi europei e in 898 città tedesche. Si tratta del primo esempio di monumento diffuso, collocato davanti all’abitazione delle persone da ricordare, spesso finite in cenere o in una fossa comune. Le pietre li riportano a casa, proprio dove c’è lo spartiacque tra la vita normale di prima e l’inferno di poi, restituendo loro dignità di persone. Il monumento è dedicato a tutte le vittime del nazifascismo dal 1933 al 1945: razziali, politiche, militari, rom, omosessuali, testimoni di Geova. In tutte le città europee inciampiamo in questi piccoli segni di ottone che hanno tutti le stesse caratteristiche - dimensioni, materiale, caratteri tipografici – ma sono tutti diversi, perché dedicati a persone diverse. Costruiscono  una mappa europea della deportazione e della memoria, che accomuna e allo stesso tempo distingue tutte le vittime, in modo discreto, anti-retorico, anti-monumentale. In Italia il progetto è iniziato nel 2010 a Roma per estendersi poi nel corso delle successive edizioni a Torino, Genova, Bergamo, Brescia, Venezia, Ravenna, Prato, Siena, L’Aquila.


Per quali motivi le ‘pietre d’inciampo’ sono così innovative?

Sono un’opera in progress, non finita: l’intento di Demnig è mettere personalmente una pietra a tutti i deportati e visto il numero esorbitante di 10 milioni, si tratta di una impresa titanica e impossibile. Gli Stolpersteine,  commissionati dai famigliari dei deportati, una volta installati diventano pubblici, parte del tessuto urbano, e veicolando una verità storica incontrovertibile sono uno strumento potentissimo contro il revisionismo e  il negazionismo. A Roma dal 2012 le ‘pietre d’inciampo’ sono dedicate anche ai martiri delle Fosse Ardeatine e chiudono così  idealmente questa parziale e “settaria” storia dei monumenti per difetto che, partendo dal Mausoleo romano, per progressiva sottrazione di monumentalità arriva appunto al monumento a ingombro zero, il sampietrino di 10cmx10, con i nomi e la storia tragica delle vittime.


Il Giardino dei Giusti, un luogo aperto non esattamente delimitato, può essere  classificato come “monumento per difetto”?

Penso che ricordare i Giusti dedicando loro gli alberi, come si fa del resto quando muore una persona cara, come avviene nei giardini di Yad Vashem, o di Yerevan, accanto al Museo del Genocidio degli Armeni, e ancora a Milano, Sarajevo, in Polonia, negli Stati Uniti, sia un modo discreto, vitale, proiettato nel futuro per ricordare persone straordinarie. Gli alberi sono tutti uguali, ma ognuno crescerà in modo diverso come diverse erano le personalità dei Giusti. 


A che punto è il progetto di “Arteinmemoria”?

 “Arteinmemoria” è un’associazione fondata nel 2012 a Roma per incoraggiare una elaborazione della memoria non retorica né celebrativa e non delegata a monumenti e riti, e soprattutto per insegnare ai giovani che la memoria del passato ha valore solo se serve a impedire che intolleranza, razzismo e discriminazione vengano perpetrati oggi ai danni di altre minoranze, di altri deboli e diversi. Il titolo è preso dalla biennale internazionale di arte contemporanea che curo dal 2002 nei resti della Sinagoga di Ostia Antica, per la quale invito ogni volta artisti diversi a realizzare un lavoro site specific sul tema della memoria. La Sinagoga di Ostia è antichissima, risale al I secolo d.C., è molto preziosa dal punto di vista storico e artistico. Gli artisti scelgono liberamente di interagire con il luogo ognuno declinando il proprio linguaggio. La prossima edizione della biennale è prevista per il 25 gennaio 2015, sperando di trovare sostegni”.

Viviana Vestrucci, giornalista

14 luglio 2014

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