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Perché raccontare "storie di bambini invisibili"?

il tema di Gariwo per il Giorno della Memoria 2020

Dedicare l’iniziativa di Gariwo per il Giorno delle Memoria a chi ha salvato e si cura di bambini e soggetti che non hanno raggiunto l’età della cittadinanza legale significa riflettere su un male indicibile che costituisce una prova del nostro essere davvero umani.

Abbiamo scelto di occuparci del tema dei bambini e dei minori non accompagnati perché si tratta di una costante tragica e sottaciuta nell’orizzonte del male storico dei nostri tempi.
Oggi è un aspetto, in particolare del fenomeno delle migrazioni, al quale riserviamo solo l’emozione di un istante. Quanto è accaduto e continua ad accadere ci fa capire che i minori, la parte più vulnerabile della società, sono le prime vittime dei genocidi, delle guerre, del terrorismo. Vittime che proclamano l’assurdità etica e politica delle guerre attuali: vittima è l’umanità intera che ha ben altre sfide demografiche, ambientali e climatiche da affrontare – sfide che il reciproco fratricidio ingigantisce a dismisura.

La riflessione del nostro appuntamento parte dalla condizione dei bambini durante il genocidio armeno e la tragedia della Shoah, fino a giungere ai drammi contemporanei delle migrazioni.

Ieri le carovane dei deportati e i campi di sterminio del deserto siriano con migliaia di orfani, i sette milioni di bambini randagi abbandonati o orfani nella Russia postrivoluzionaria in seguito alla guerra e alla carestia, un milione e mezzo di bambini dei lager nazisti sterminati e una percentuale esigua di sopravvissuti che possono testimoniare l’orrore.

Oggi i bambini vittime della guerra in Siria, dei naufragi nel Mediterraneo, dei tentativi di fuga solitaria, dei racket dei criminali. Nei campi di accoglienza in Europa, in Africa, in Medio Oriente, i minori costituiscono un terzo dei rifugiati e si registrano alte percentuali di violenze, di vittime e di suicidi.

La situazione attuale non è sufficientemente analizzata dai mezzi di comunicazione, che si limitano per lo più ad assecondare l’emozione momentanea, suscitata da episodi particolarmente commoventi (pensiamo ad Aylan Kurdi, in fuga con la sua famiglia dall’Assedio di Kobane, restituito esanime dal mare sulle spiagge turche, al bambino annegato con la pagella cucita nella tasca, al giovane morto assiderato nel carrello dell’aereo), ma non agiscono sul piano di una seria analisi dei contesti da cui scaturiscono simili episodi.

È necessario opporre al sensazionalismo e alla superficialità dei mezzi di comunicazione la serietà di un pensare che dia adito non solo a comportamenti corretti, ma a proposte che trovino nella buona politica gli strumenti, sia giuridici che sociali, effettualmente praticabili.
Il nostro compito deve essere di spingere le istituzioni a rendere operativi i principi già contenuti nelle Dichiarazioni dei diritti umani e, nello specifico, nelle Dichiarazioni dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del 1989.

I testimoni che presentiamo ci indicano una strada e ci danno modo di constatare come sia possibile coniugare l’impegno personale nel nostro quotidiano, con una più generale apertura verso una dimensione ad ampio raggio, all’interno della quale le comunità possano agire in modo solidale.

Focalizzarci sul tema dei bambini ci fa capire meglio l’inconsistenza e la pretestuosità della cultura dell’odio, alimentata dalla paura. I bambini non possono rappresentare alcuna minaccia e non giustificano alcuna paura. Essi ci interpellano nell’assunzione di una responsabilità personale e collettiva.

Non è mai sufficiente lo sforzo di conoscenza di quanto accaduto nel passato per poter arginare la dilagante cultura del nemico e opporvi la cultura della solidarietà e dell’accoglienza. Nel secolo dei genocidi è proprio contro i bambini che si è esercitata la violenza dei persecutori, tanto più devastante in quanto esercitata su esseri in crescita. All’orrore della eliminazione fisica si aggiunge nei sopravvissuti il prolungamento della catena del male, determinato dalle esperienze tragiche attraversate. Il risentimento e l’odio che potrebbero divenire, a causa del male subìto, la cifra attraverso la quale interpretare il rapporto con i propri simili e l’ambiente circostante, viene superato, come è accaduto a Liliana Segre, solo con la “rivoluzione” dell’amore.
“ Amare – parola nuova – e l’essere amata – parole strepitosamente nuove – compirono una rivoluzione in me” [1]

Ritornare alla vita normale dopo il lager, dopo le marce nel deserto, dopo il Gulag, dopo i campi di rieducazione, richiede uno sforzo indicibile. L’esperienza vissuta ha messo i perseguitati nella condizione di “non vedere, non sentire, non capire, non parlare, non esistere”[2]. Rompere il silenzio, come ha fatto Liliana Segre, la “bambina” sopravvissuta al lager, dedicare parte della vita alla testimonianza, voltarsi indietro, raccontare il male estremo per un senso di responsabilità e di dovere civico è l’esito di chi ha conservato intatto un nucleo di bene dentro l’orrore del lager. Grandi testimoni sono capaci di trasformare in conoscenza il male estremo e di farci toccare con mano che la memoria rende liberi solo se ci rende capaci di vincere l’indifferenza. Se qualcuno avesse condiviso la sofferenza della bambina rifiutata dalla scuola, forse avrebbe attenuato la fatica immensa che ogni sopravvissuto compie per immergersi nella normalità.

I Giusti rinforzano “il messaggio di amore, di forza e di speranza”[3] che i grandi testimoni ci donano. L’esercizio di umanità che hanno praticato nei confronti dei bambini - durante il genocidio armeno avvenuto nella penisola anatolica nel 1915, la guerra civile in Russia e le sue conseguenze dopo il 1917, la Shoah, le guerre civili in Siria e il dramma dei figli della speranza nell’esodo verso un’Europa in pace, che riconosce in senso universale i diritti dell’infanzia -, è la verifica dell’esistenza ancora attuale di un’umanità vitale che sa dare nuovo inizio al proprio agire.

Il miracolo che preserva il mondo, la sfera delle faccende umane, dalla sua normale, "naturale" rovina, è in definitiva il fatto della natalità, in cui è ontologicamente radicata la facoltà di agire: è, in altre parole, la nascita di nuovi uomini e il nuovo inizio, l'azione di cui essi sono capaci in virtù dell'esser nati. Solo la piena esperienza di questa facoltà può conferire alle cose umane fiducia e speranza, le due essenziali caratteristiche dell'esperienza umana.

Chi agisce per salvare le vite dei più giovani riconosce questo miracolo: la bellezza della libertà che può scaturire dalla fragilità e dalla debolezza della originale condizione umana e contrasta l’obbrobrio di chi sfigura l’essere umano - istruendo e usando, ad esempio, i bambini-soldato contro ogni possibilità di socievole convivenza.

Prevenire nel presente la sofferenza dei bambini, cercare di abbattere le barriere emotive e cognitive che condizionano i rapporti affettivi di chi ha vissuto esperienze tragiche, significa tentare di interrompere la catena del male e porre un argine alla transgenerazionalità del dolore.

Lo hanno fatto e lo fanno i Giusti. Un esempio per le nostre scelte oggi.

[1] E. Mentana, Liliana Segre, La memoria rende liberi, best BUR Rizzoli, Milano XI edizione 2019, p.180
[2] Ibidem, p.183
[3] Ibidem, p. 209

16 gennaio 2020

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