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Ripensando Havel

di Francesco M. Cataluccio

È inevitabile, nello smarrimento politico di queste settimane, e con un’Europa in grande crisi dopo la “Brexit” (quell’Europa che per Havel e tanti altri intellettuali dell’Est europeo è stata l’idea guida delle loro speranze e della loro azione politica), chiedersi che cosa direbbe Havel. E questo è forse l’unico modo per parlare di lui, al di là del racconto della sua straordinaria vicenda umana, intellettuale e politica, senza cadere in ragionamenti astratti.

Havel si è sempre sanamente considerato un intellettuale prestato di malavoglia alla politica. In Interrogatorio a distanza (1986) confessò:
«Non mi sono mai occupato sistematicamente di politica. Sono uno scrittore e ho sempre concepito la mia missione come un dovere di dire la verità sul mondo in cui vivo, proclamare i suoi orrori e le sue miserie, e quindi mettere in guardia più che dare indicazioni. Anche come drammaturgo sono sempre partito dal fatto che ogni spettatore deve scoprire da solo, dentro di sé, le cosiddette soluzioni, e che il mio compito non è quello di offrigli qualcosa di pronto». 

Dopo l’invasione della Cecoslaovacchia da parte dei carri armati del Patto di Varsavia, e l’inizio della repressione, venne vietata la pubblicazione e la rappresentazione di tutte le sue opere e lui finì a lavorare in una fabbrica di birra. Divenne un simbolo degli artisti messi a tacere, ma non rassegnati, e fu per lui naturale firmare il documento costitutivo di «Charta 77» e farne il portavoce. E fu purtroppo ovvio che il potere si accanisse soprattutto contro di lui: per un decennio fu ripetutamente arrestato e incarcerato (il periodo più lungo fu quello dal 1979 al 1983, che terminò con la scarcerazione per motivi di salute). I suoi coraggiosi proclami politici, mascherati da lettere dal carcere alla moglie, Lettere a Olga (1983), lo fecero riconoscere come il principale oppositore interno al regime e si guadagnò un enorme credito morale e politico presso i suoi connazionali.
Con la sua lucida passione, Havel si dimostrò il vero teorico della lotta non violenta della società civile. Ne Il potere dei senza potere (1978), raccomandava una nuova forma di politica: la «politica antipolitica» sostenuta da un’ostinata ricerca della Verità contro la menzogna del potere. Un testo decisamente ancor oggi attuale. La proposta «antipolitica» (ma sarebbe meglio dire «antipartitica») di Havel era quella di una democrazia per liberi individui, la possibilità per ciascuno di contare, decidere, controllare, cambiare. Ogni forma organizzata deve essere al servizio di quel ciascuno che ogni individuo è, e ogni forma istituzionale dove cercare di impedire che si produca quello che è il maggior pericolo per la democrazia: l’inversione tra il soggetto e la funzione, tra l’individuo e il suo strumento. I partiti sono necessari, ma solo in quanto strumenti. Perciò, in quanto partiti, vanno esclusi dal potere:
«Meglio se le forme organizzate e stabili della vita politica avranno la leggerezza dei club e saranno sempre pronte a farsi da parte. La scelta degli uomini per le diverse cariche deve riguardare individui ai quali i partiti forniranno sostegno, strumenti, conoscenze, apparati organizzativi. Il potere che si fa professione, il voto che si fa merce, implica il perdersi dell’individuo e la fine della democrazia autentica».
Havel era abituato a ragionare concretamente su problemi concreti. E questo è un bel paradosso per uno scrittore diventato famoso per i suoi testi del “teatro dell’assurdo”. Del resto, quasi assurdo sembra il modo in cui nacque il primo movimento di opposizione in Cecoslovacchia.

«Charta 77» nacque in risposta alla persecuzione del gruppo rock dei «Plastici» e del loro leader, Ivan Jirous, amico di Havel. Contro il loro processo fu scritta una lettera aperta allo scrittore tedesco Heinrich Böll (sottoscritta dal poeta,futuro Premio Nobel, Seifert, dal critico letterario Cerny, dal filosofo Kosik e da una settantina di persone). Questo episodio mosse le acque della stagnazione post sessantotto, mostrando che c’erano dei coraggiosi rappresentanti della società civile, e anche parecchi ex membri del Partito Comunista, disposti a mettersi in luce e rischiare, per campagne per la difesa dei diritti umani e democratici. La prima riunione fondativa di «Charta 77» si tenne il 10 dicembre 1976 con Havel, Mlynar, Kohout (al quale si deve l’invenzione del nome), Nemec e Komeda. Fu stabilito che «Charta» avrebbe avuto tre Portavoce (i primi furono: Hàjek, Patočka e Havel). Le firme furono raccolte tra Natale e Capodanno. Sottoscrissero il documento 243 persone. Nel novembre del 1979, nonostante gli arresti e le intimidazioni, i firmatari erano diventati 2.000.
«Charta 77» fu il simbolo del risveglio morale dei cecoslovacchi ed ebbe una grande importanza per far capire all’Occidente (e anche all’Urss) che la «normalizzazione» di Husák non aveva spazzato via l’esperienza e i valori della Primavera di Praga. I suoi membri compresero bene che la loro salvezza stava nei rapporti stretti con l’Europa, nella ricerca di una solida rete di contatti politici con vari partiti della sinistra. Ma promossero anche strette relazioni con gli altri «dissidenti» dell’Est. Clamoroso, ad esempio, fu l’incontro tra Havel e i polacchi Jacek Kuron, Jan Litynski e Adam Michnik, per un meeting nei Sudeti, proprio nell’estate del 1977.

Gli intellettuali dissidenti dell’Est europa avevano come principale punto di riferimento la cosiddetta “società civile”. Non era questa una classe sociale, ma un’elité che si sentiva soffocare dai regimi legati all’Unione Sovietica e guardava all’Europa e alle libertà occidentali. Furono loro le avanguardie che erosero il consenso e la credibilità a questi regime prepararono le condizioni per la spallata finale che, in un contesto internazionale favorevole, li fece crollare.
Gli ideali ai quali queste elité si rifacevano erano quelli della Rivoluzione francese: Libertà, Eguaglianza, Fraternità. La Libertà e la Fraternità sono state raggiunte. Intellettuali e operai hanno a un certo punto lottato (soprattutto in Polonia) apertamente per cambiare regime politico. Ma poi l’Uguaglianza purtroppo non si è realizzata e le differenze sociali, nel Centro come nella parte occidentale dell’Europa si sono accentuate. Da qui nasce anche il “populismo” che prende pericolosamente sempre più piede e allontana le elite politiche e intellettuali dal popolo.
C’è poi, dietro a fenomeni di “nostalgia” per il passato una sorta di paura della libertà. In un commento, scritto dieci anni fa, che prendeva spunto dai risultati delle elezioni ucraine (Havel, Depressione e rivoluzione, “Repubblica”, 27/III/2016), Hevel ci ragionava da par suo:
“Se prima era lo Stato a decidere ogni cosa, le nuove circostanze impongono in genere nuove sfide; e molti (soprattutto a i meno giovani) hanno iniziato a sentire come un onere la libertà che li costringe di continuo a prendere decisioni. E’ questo un disagio simile a quello che ho vissuto in prima persona dopo la mia scarcerazione: per anni avevo anelato alla libertà, ma quando finalmente sono uscito da carcere mi sono trovato improvvisamente a confronto con le molte scelte della vita quotidiana. Costretti a decidere in continuazione, si finisce per essere aggrediti dal mal di testa,e magari da un desiderio inconscio di tornare in cella”.
Havel vide lucidamente che le cose si stavano evolvendo in modo diverso da quello che lui e i suoi amici avveano auspicato. Ne capì la complessità e ne fece esperienza quando dovette per forza di cose assumere degli importanti ruoli istituzionali.

Havel divenne, nel novembre 1989, il leader della cosiddetta «rivoluzione di velluto» (perché fu assolutamente incruenta). A capo del Foro Civico negoziò con i responsabili del vecchio regime il passaggio dei poteri. Il 29 dicembre 1989 fu eletto, dall’Assemblea nazionale, presidente della Repubblica Cecoslovacca. Venne poi rieletto agli inizi di luglio del 1990.
La Repubblica Ceca e quella Slovacca si divisero sotto le spinte nazionaliste che infiammavano l’ex impero sovietico. Ma mentre altrove le divisioni etniche si trasformarono in violente tragedie, lì, nel centro dell’Europa, grazie all’instancabile opera di mediazione del Presidente, e al buon senso delle popolazioni, la separazione avvenne senza drammi, se non quello suo, perché era decisamente contrario, e visse la cosa come una sconfitta personale, tanto che si dimise nell’estate del 1992. Ma, nel gennaio del 1993, divenne presidente della neonata Repubblica ceca, e fu rieletto anche nel 1997.
Quando andò in pensione dalla politica, fu finalmente libero di manifestare tutto il suo pessimismo: «Penso che le cause della crisi attuale del mondo si trovino in qualcosa di più profondo che non in un concreto modo di organizzare l’economia o in un concreto sistema politico. Sento in qualche modo sullo sfondo della crisi contemporanea l’orgoglioso antropocentrismo dell’uomo moderno, convinto di poter conoscere tutto, di potersi adattare a tutto».

Francesco M. Cataluccio

Analisi di Francesco M. Cataluccio, Responsabile editoriale della Fondazione Gariwo

14 novembre 2016

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