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​Risoluzione Unesco: "Palestina occupata". Un negazionismo di oggi

di Gabriella Brusa-Zappellini

Una delle maggiori sfide a cui la modernità ci pone oggi dinanzi è la ricerca di un punto di equilibrio fra due istanze altrettanto legittime e apparentemente antitetiche. Da una parte la vocazione universalistica, maturata nel travaglio del razionalismo illuminista che, ponendo l'accento sulla identità della natura umana, ci fa sentire cittadini di un mondo onnicentrico, infinitamente dilatato. Dall'altra l'appartenenza particolaristica, che, facendo leva sui molteplici percorsi storici, rivendica il valore identitario delle tradizioni che ci appartengono per nascita. Oscilliamo fra il linguaggio "materno" e il linguaggio "grammatico" (come diceva Dante), correndo il rischio di scivolare costantemente in uno dei due estremi, entrambi gravidi di conseguenze: l'arroccamento in un populismo cieco o la dispersione in un universalismo vuoto. Agli inizi dell'Ottocento Hegel scriveva che, se osserviamo il divenire storico dal punto di vista della felicità dell'uomo e delle sue passioni, la storia ci appare come un mattatoio "in cui sono state condotte al sacrificio la fortuna dei popoli, la sapienza degli Stati e la virtù degli individui". Ma se guardiamo la storia dal punto di vista della ragione, il suo procedere segna un progresso costante della libertà e dei suoi potenziali emancipativi universalistici. Mi chiedo se oggi un certo strabismo non possa giovare a raggiungere una più matura consapevolezza identitaria.

La Costituzione dell''Unesco, firmata a Londra nel novembre del 1945, ha rappresentato, per me e per il mio impegno di archeologa, un punto di riferimento costante. Il patrimonio archeologico non appartiene ai singoli Stati: è patrimonio universale dell'umanità. Se viene messo in pericolo è il mondo intero che ha il dovere di intervenire, salvaguardando i tesori di un passato che oggi avvertiamo come bene comune. Ma i reperti che le missioni archeologiche portano alla luce nei diversi Stati è giusto e legittimo che rimangano nei musei locali, come testimonianze delle radici identitarie delle culture che li hanno creati. Tutela universale e custodia particolaristica non sono dunque aspetti antitetici, ma due facce della stessa medaglia. Per questo motivo, la recente risoluzione del comitato esecutivo dell'Unesco "Palestina occupata", voluta da alcuni Paesi arabi e approvata a Parigi il 13 ottobre scorso, mi ha dolorosamente colpita. È una risoluzione che sostanzialmente nega l'appartenenza del Monte del Tempio di Gerusalemme e della spianata del Muro del Pianto alla tradizione ebraica. Si tratta di una enormità. A un negazionismo così infondato pare addirittura fuori luogo rispondere elencando le numerose testimonianze archeologiche che lo contraddicono in modo chiaro e inequivocabile. Nella risoluzione non solo si chiede a Israele di porre fine alle ricerche archeologiche e agli scavi in tutta l'area di Gerusalemme Est (il punto 5 della risoluzione impone a "Israele, potenza occupante, di cessare i persistenti scavi (…)" - ma, in materia di ricerca archeologica, viene rivendicata una "autorità esclusiva" islamica. Una esclusività che è una esplicita pretesa di monopolio "in particolare all’interno ed intorno alla città vecchia" e che si pone in aperta contraddizione con lo spirito più autentico di una istituzione che nel suo statuto fondativo proclama la volontà di promuovere "la cooperazione internazionale in tutti i rami dell’attività intellettuale".

Sul voto di questa risoluzione l'Italia - come altri Stati membri - si è astenuta. Considero estremamente grave questa latitanza di sapore opportunistico, ancora più grave perché assunta da un Paese che nell'ambito della conservazione della memoria e della tutela del patrimonio ha sempre profuso un grande impegno, mettendo in campo le sue forze migliori.

Gerusalemme, come è risaputo, non è solo un luogo fisico. È anche un luogo simbolico, fra i più sacri, delle tre religioni monoteiste. Fra queste la più antica è l'ebraica. Nella risoluzione Unesco vengono utilizzati esclusivamente toponimi in lingua araba ("Nobile santuario" / al-Haram al-qudsī al-sharīf ), cancellando con un colpo di spugna l'uso della lingua ebraica ("Monte del Tempio" / Har haBáyit). Eppure, proprio in aramaico biblico e in ebraico sul Monte del Tempio sono risuonate per la prima volta le parole che, con il linguaggio arcaico del mito, raccontavano di una umanità discesa tutta da un'unica progenie. Mentre nei miti coevi del Vicino Oriente antico a tanti dèi veniva attribuita la creazione di molteplici, differenti stirpi, nel monoteismo ebraico a un solo dio si faceva risalire la creazione di un'unica specie umana. Un'idea universalistica espressa in una lingua che oggi in quei luoghi si intende soffocare. Dagli studi di genetica sappiamo che l'avventura della nostra specie (sapiens sapiens) ha avuto origine in Africa fra i 190 000 e i 150 000 anni fa a partire da una culla unica. Ma la genetica nulla può dire della nostra più antica e comune identità culturale. Qui è l'archeologia preistorica che entra in campo: alle origini anche il nostro comportamento simbolico era fortemente unitario. In Europa, in Africa e in Australia le grotte istoriate (a partire da 40 000 anni fa e probabilmente anche un po' prima) offrono di questo straordinarie testimonianze: grandi animali incisi e dipinti, impronte di mani, segni geometrizzanti. Siamo dinanzi a un linguaggio simbolico globale che ha alimentato per decine di millenni le nostre più antiche ritualità. Negli insediamenti dei cacciatori-raccoglitori del tardo Paleolitico (dall'Atlantico agli Urali), per almeno 30 000 anni, troviamo sepolture rituali simili, accompagnate da medesimi corredi funerari, monili, oggetti d'uso e d'arte mobiliare. Queste sono le nostre robuste, ancestrali radici comuni. Una straordinaria comunanza che, con l'avvento del Neolitico e l'introduzione dell'agricoltura, inizierà a disperdersi e a differenziarsi nei diversi dialetti regionali.

Gli storici hanno correttamente ricostruito il quadro di un mondo antico costantemente travagliato dalle guerre. Ma al di là di questo scenario conflittuale, la ricerca archeologica ha saputo rivitalizzare un tessuto culturale splendido, più complementare che antitetico. Se Alessandro ha messo a ferro e fuoco Persepoli, i regni ellenistici nati dalla dissoluzione del suo impero hanno espresso un generalizzato sincretismo artistico fatto di incontri, scambi costanti e reciproci influssi. Anche Gerusalemme conserva, accanto alla memoria di passati conflitti, il ricordo di momenti di convivenza e di armonica integrazione.

Nell'articolo I della Costituzione dell'Unesco del 1945 (Scopi e funzioni) si legge: "L’Organizzazione si propone di contribuire al mantenimento della pace e della sicurezza rafforzando, con l’educazione, le scienze e la cultura, la collaborazione tra le nazioni, allo scopo di garantire il rispetto universale della giustizia, della legge, dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a profitto di tutti, senza distinzioni di razza, di sesso, di lingua o di religione". La risoluzione "Palestina occupata" va in questa direzione? Non lo credo. Temo che vada in senso inverso, rafforzando i particolarismi intolleranti di chi pensa di risolvere le cose azzerando la memoria dei popoli con il taglio netto delle loro più antiche radici. Non è certo con un negazionismo privo di fondamenti, né spezzando legami millenari, né cambiando il nome ai luoghi che è possibile trovare il difficile punto di equilibrio fra identità storica e universalità dei valori. Solo questo forse potrebbe contribuire alla costruzione di un futuro migliore, di pace e di convivenza in una regione del mondo così travagliata, così lontana, ma anche così vicina e che molti di noi, per diverse ragioni e differenti storie, amano.

Analisi di

21 ottobre 2016

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