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Rivalutare la Storia nei confronti della memoria

di Marcello Flores

Il processo di costruzione della memoria, per come si è andato costruendo nell’ultimo mezzo secolo, è stato largamente dominato dalla Shoah, come ha ricordato Anna Foa. La sua preminenza è rimasta fino a ora centrale e costitutiva della costruzione della memoria occidentale, ma solo in parte – e di questo bisognerebbe riflettere senza paraocchi o falsi pudori – di una memoria più universale, anche se è vero che la cultura universale dei diritti umani emersa con forza nell’immediato secondo dopoguerra è stata certamente debitrice della eredità storica e della riflessione attorno alla Shoah.

A partire dalla fine del comunismo e dell’Urss, dal 1991 in avanti, la memoria collettiva, anche quella occidentale, si è arricchita ed estesa sui temi dell’eredità di quell’evento storico complesso e articolato che ha caratterizzato gran parte del ventesimo secolo, il comunismo appunto. Non è un caso se i crimini del comunismo sono entrati prepotentemente nella memoria europea che le istituzioni comunitarie cercano di costruire, come è emerso ultimamente con la risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre 2019 che tante polemiche ha suscitato in Italia, dove è stata letta male e interpretata peggio proprio per la permalosità della cultura di sinistra ad affrontare con coerenza e rispetto della verità un tema continuamente rimosso. Per l’Europa Shoah e comunismo – in modo certo eccessivamente riduttivo e appiattito su una logica simbolica più che storica – sono le due gambe su cui deve costruirsi la memoria europea, che risponde alle due fasi storiche di creazione «occidentale» dell’Europa unita e del suo allargamento a est dopo la fine del comunismo.

Questa dinamica memoriale europea, tuttavia, si è andata costruendo nel pieno del processo di globalizzazione che, per molti versi, ha scombinato le carte della memoria collettiva e reso più arduo un discorso comune e tendenzialmente universale. Come si è legittimamente e utilmente domandato David Rieff nel suo ultimo libro dedicato alla memoria (In praise of forgetting, 2016, trad.it. Elogio dell’oblio, 2019), perché mai una vittima del genocidio in Ruanda dovrebbe ricordare le vittime del Gulag e perché un giovane venticinquenne del Cairo o di Pechino dovrebbe ricordare entrambi? La forza dell’imperativo morale di ricordare, in un mondo in cui tutti i valori universali sembrano in crisi e si sono moltiplicate le tragedie che le vittime (ma non solo) ritengono debbano essere ricordate, sembra in realtà scarsamente praticabile. Del resto il continuo e spesso ampio flusso migratorio avvenuto negli ultimi trent’anni (nell’epoca della ultima e più innovativa globalizzazione) ha portato anche in Europa milioni di persone a cercare e chiedere una cittadinanza europea senza volere, però – in modo più legittimo, giusto e giustificato – abbandonare la propria identità, che è fatta anche di storia, di tragedie collettive passate o vicine, di una memoria diversa, non contrapposta ma non assimilabile a quella occidentale e neppure a quella dei Paesi che hanno vissuto il comunismo. È possibile, per l’Europa, voler includere in un processo di cittadinanza attiva milioni di persone che provengono dall’Asia e dall’Africa offrendo loro – sul terreno della memoria collettiva da costruire insieme, perché anche in Europa essa è lontana dall’essere stata raggiunta – la Shoah e il comunismo come unici grandi punti di riferimento?

Anna Foa si è domandata se la pandemia di Covid-19 modificherà in parte o in profondità le politiche della memoria e la necessità di memorie collettive. Penso che sia un problema vero, che si aggiunge, accentuandolo e modificandolo, a quel «presentismo» che già si era fatto notare con crescente manifestazione, secondo cui è la sola memoria del presente a contare, è essa il punto di riferimento su cui appiattire la memoria del passato, producendo anacronismi paradossali e un’incapacità e rendere conto del contesto delle epoche precedenti, e cioè di quali fossero i pensieri e le azioni degli attori di allora, i loro convincimenti e valori, i loro riferimenti culturali, le diversità e contraddizioni di posizioni che sono sempre esistite in ogni periodo storico.

La memoria dei Giusti, in questa situazione che occorre innanzitutto conoscere, comprendere e analizzare, è ancora di stringente attualità e necessità? Rimane certo fondamentale il riferimento a momenti simbolici – questo sono sia i Giusti sia i Giardini che si costruiscono in loro nome – capaci di smuovere la riflessione, di sollecitare considerazioni etiche e morali (l’etica, come scrisse oltre dieci anni fa Avishai Margalit in L’etica della memoria, è quella che riguarda i rapporti tra vicini – il gruppo familiare, etnico, religioso, nazionale – mentre la morale è quella che riguarda l’intera umanità), di sviluppare politiche di inclusione e di rispetto dei diritti umani.

Occorre anche, però, sforzarsi di raccontare la Storia (quella più generale, dei genocidi e delle grandi tragedie collettive, ma anche dei Giusti, delle vittime e degli stessi perpetratori), che è l’unico modo di offrire antidoti al presentismo – ma anche dei sovranismi che tendono, in caso, a occuparsi solo delle proprie vittime e dei propri Giusti, ma mai dei propri perpetratori. Occorre rivalutare la Storia nei confronti della memoria, produrre narrazioni che, pur se particolari e dedicate a esperienze singolari, possano avere dentro di sé un insegnamento universale, di conoscenza e di comprensione/condivisione di valori che, come ha suggerito nel libro appena uscito Donald Bloxham (History & Morality, 2020), sono sempre presenti, lo si voglia o no, nelle narrazioni e spiegazioni della storia.

Marcello Flores

Analisi di Marcello Flores, storico

15 luglio 2020

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