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Sull’eterno ritorno del nazionalismo

di Francesco Tava

"Le virtù del nazionalismo" di Yoram Hazony (Guerini e Associati)

"Le virtù del nazionalismo" di Yoram Hazony (Guerini e Associati)

Nel maggio del 1945, negli stessi giorni in cui le forze alleate costringono la Germania a una resa incondizionata, George Orwell consegna alle stampe una serie di note sul significato e i pericoli del nazionalismo. Non è la prima volta che l’argomento è affrontato con toni aspramente critici. Le ragioni di tali critiche sono, d’altro canto, quanto mai disparate. Sin dall’Ottocento, numerosi intellettuali e uomini politici, rifacendosi a convinzioni e ideologie spesso contrastanti, hanno evidenziato le ambiguità e i rischi del nazionalismo. In un articolo scritto nel 1862 per la “Home and Foreign Review”, lo storico e parlamentare inglese Lord Acton (famoso per la massima “il potere corrompe”) lamenta il dilagare in Europa di movimenti sociali la cui spontaneità e aggressività lasciano esterrefatti. Questi movimenti, “popolari, spontanei e quasi irresistibili”, sono alimentati da una nuova idea di nazionalità che Lord Acton individua come una grave minaccia per i vecchi regimi di tutto il continente. In “Questione nazionale e autonomia” (1908-1909), Rosa Luxemburg afferma che la democrazia non deve fondarsi sulle singole nazioni, ma sulla presenza di istituzioni popolari in grado di riconoscere ai cittadini precisi diritti politici. Per Luxemburg, il nazionalismo, lungi dall’essere uno strumento di emancipazione dei popoli, rappresenta un intralcio alla creazione di un vero internazionalismo social-democratico. Le posizioni di Acton e Luxemburg sono inconciliabili, nella misura in cui il primo vede il nazionalismo come minaccia di rivoluzione e di disordine, mentre la seconda come un espediente per frenare tale rivoluzione. Nonostante questa differenza di fondo, il loro giudizio è egualmente negativo. Le loro posizioni sono altresì caratterizzate da una profonda aderenza agli scenari politici del loro tempo. La stessa aderenza si riscontra anche in Orwell, seppur formulata in maniera diversa. Nonostante la pregnanza del contesto storico (la fine della Seconda Guerra Mondiale) e personale (lo scrittore avrebbe di lì a un anno iniziato la scrittura di 1984) in cui le “Note sul nazionalismo” hanno visto la luce, Orwell riesce nell’intento di formulare una definizione di nazionalismo che guarda al presente senza tuttavia rimanerne inghiottita. Pur avendo chiaro in mente il ruolo concreto che il nazionalismo ha giocato nelle dinamiche dei conflitti novecenteschi, Orwell descrive questo fenomeno come essenzialmente astratto; un’emozione legata più alla cattiva coscienza di chi la alimenta che a qualsiasi oggettiva istanza di identità o appartenenza.

“L’emozione di cui parlo non è sempre legata a ciò che si definisce una nazione; cioè, a una singola razza o area geografica. Può essere legata a una chiesa o a una classe sociale, oppure può funzionare in senso meramente negativo: contro qualcosa e senza bisogno di un positivo oggetto di lealtà. Per ‘nazionalismo’ intendo innanzitutto l’abitudine di presupporre che gli esseri umani possano essere classificati come insetti e che interi blocchi di milioni o decine di milioni di persone possano essere etichettate come ‘buoni’ o ‘cattivi’. In secondo luogo (e questo è molto più importante), per nazionalismo intendo l’abitudine di identificare se stessi con una singola nazione o entità, collocandola al di là del bene e del male e non riconoscendo altro dovere se non quello di portare avanti i suoi interessi”.

Quella di Orwell è una definizione generale e, proprio per questo, pregnante oggi tanto quanto lo era nel 1945. È pregnante tutt’oggi perché consente di disinnescare un argomento particolarmente in voga tra i teorici e i fautori di nuove forme di nazionalismo che, negli ultimi anni, sono andate moltiplicandosi, riscuotendo un notevole successo. Tale argomento stabilisce che la forma politica del nazionalismo, una volta rimossa l’oscura patina di razzismo, fascismo, xenofobia e genocidio che ha caratterizzato le sue iterazioni novecentesche, possa (o debba) riacquisire un ruolo di primo piano nell’ordine politico mondiale. I motivi addotti per giustificare tale riabilitazione sono svariati. Da una parte, si tende a presentare lo stato-nazione e il nazionalismo che ne assicura la coesione come valide alternative alle istituzioni governative internazionali, sempre più spesso dipinte come ingombranti leviatani dai piedi d’argilla, costruite su vuoti principi di legalità, in assenza di un’autentica legittimazione popolare. Dall’altra, c’è un argomento più pragmatico e straordinariamente solido: a prescindere da questioni di merito, lo stato-nazione moderno sembra essere l’unica forma di governo attualmente funzionante. Di conseguenza, il nazionalismo si presenta come una condizione altrettanto ineludibile. E allora perché, invece, di combatterla, non si impara a comprenderla e a farne buon uso?

Tra le tante voci che hanno in vario modo propagato queste tesi, negli ultimi anni, si distingue per eloquenza quella del filosofo israeliano Yoram Hazony. In uno dei sui libri più recenti – “The Virtue of Nationalism”, 2018 (tradotto in italiano per Guerini e Associati) – Hazony propone di dimostrare come il nazionalismo non sia solo un sistema politico solidamente innestato nel mondo contemporaneo e, in quanto tale, irrinunciabile per chiunque si accosti alla politica con atteggiamento pragmatico, ma anche un’ideologia che, meglio di qualunque altra, può assicurare al pianeta un futuro di pace e prosperità. La struttura argomentativa di Hazony poggia su una lunga ricerca che l’autore ha condotto, nel corso di una ventina d’anni, su nazionalismo ebraico, sionismo e stato di Israele (si veda, a tal proposito, “The Jewish State”, 2000). Da una parte, Hazony si premura di fornire una definizione neutra e “alta” di nazionalismo, rigettando qualunque suo contenuto manifestamente violento e intollerante e rifacendosi piuttosto a una stretta cerchia di padri nobili (Mill, Mazzini) oltre che a pochi interpreti più recenti (Gellner) la cui posizione poco sembra discostarsi da quel “nazionalismo tradizionale” a cui Hazony si ispira. Con tale espressione, l’autore si riferisce semplicemente a un sistema di potere che vede coincidere strutture di governo e gruppi nazionali. Tale coincidenza, più di qualsiasi progetto politico alternativo, sarebbe in grado di garantire i principi fondamentali di libertà e auto-determinazione collettiva, attualmente minacciati in ogni parte del mondo da prospettive globaliste e trans-nazionali.

Tale posizione non sembra differire più di tanto da quella di tanti altri rappresentanti del conservatorismo odierno che tendono, con più o meno successo, a denunciare le carenze delle principali istituzioni internazionali (Unione Europea, Nazioni Unite, ecc.) dovute, a loro avviso, a un sostanziale deficit di legittimità e democrazia interna. Roger Scruton, più volte citato in “The Virtue of Nationalism”, è stato per anni un campione di questa visione e della necessità di costruire un conservatorismo solido e illuminato, il cui fine è proprio quello di “conservare” valori e principi tradizionali (sentimento nazionale, patriottismo, appartenenza religiosa) per far fronte a pericolose ideologie mondialiste come il socialismo e (più di recente) l’Islam radicale. In un breve saggio del 2008 (rinvenibile nel volume “Solidarity Beyond Borders”, a cura di Janusz Salamon), Scruton afferma che l’unico modo per generare un autentico rapporto di solidarietà interpersonale è quello di ancorare tale rapporto su solide premesse di carattere nazionale e religioso in assenza delle quali viene inevitabilmente meno qualunque tipo di coesione politica e sociale.

Si è spesso sottolineato come la prosa raffinata di Scruton nasconda tesi e prese di posizione personali tutt’altro che rassicuranti, ben rappresentate dalla sua amicizia con Víctor Orbán e altri leader di estrema destra e le esternazioni antisemite che hanno portato al suo allontanamento da Downing Street (dove ricopriva un incarico di consigliere governativo) nel 2019. Leggendo il libro di Hazony (anch’egli vicino a Orban), si può intravedere una traiettoria concettuale piuttosto simile. La difesa del nazionalismo tradizionale si regge su due tesi distanti tra loro, ma altrettanto inconciliabili con la visione di un nazionalismo inteso come strumento di pacifica collaborazione e competizione tra i popoli. In primo luogo, Hazony presenta il nazionalismo come un carattere innato ed ancestrale dell’umanità. Ciò emerge innanzitutto quando l’autore giustifica la sua adesione a questa ideologia non solo e non tanto sulla base di motivazioni razionali, ma di convinzioni dettate dal suo contesto personale e familiare (“Nella casa di mio padre, mi è stato insegnato che essere nazionalisti è una virtù”). Ancor di più, il ritratto di un nazionalismo passionale e radicato viene alla luce quando Hazony parla, nella seconda parte del libro, della viscerale adesione dell’individuo alla sua famiglia, tribù o nazione d’origine (il libro è dedicato “ai membri della mia tribù”); adesione che contribuisce a formare un’identità di massa in cui la ragione dell’individuo sembra inevitabilmente perdersi. Sembra, insomma, che lo stesso motivo che spinse Orwell, nel 1945, a rigettare il sentimento nazionalista (“l’abitudine di identificare se stessi con una singola nazione o entità, collocandola al di là del bene e del male”) sia, nell’analisi di Hazony, uno dei motivi non solo del suo successo, ma anche della sua intrinseca virtù. Solo attraverso questa adesione viscerale i popoli sono infatti in grado di affermarsi collettivamente e di resistere a qualsiasi ingerenza esterna sulla propria autonomia di gruppo.

La seconda tesi a cui mi riferisco, evidente fin dalle primissime pagine del libro, non è rivolta al passato ancestrale del sentimento nazionalistico, ma alla sua realtà presente. Per motivare la scrittura del libro, Hazony ricorre al vecchio argomento dell’eterno ritorno del nazionalismo. Nonostante il discredito globale che questa ideologia ha subito a causa del suo impiego nelle macchine totalitarie novecentesche, va registrato il fatto che, nel XXI secolo, il nazionalismo sta prepotentemente tornando alla ribalta. Si tratta di un’affermazione difficilmente contestabile. Mentre Hazony scrive il suo libro, Regno Unito e Stati Uniti che, per motivi non meglio precisati, rappresentano l’obbiettivo quasi esclusivo del filosofo israeliano, stanno entrambi attraversando una stagione di rinnovato nazionalismo. Da una parte, la campagna referendaria che ha portato i britannici a votare per l’uscita dall’Unione Europea nel 2016 è stata alimentata da una poderosa retorica nazionalistica, incentrata sulla necessità di riacquisire la sovranità perduta riprendendo possesso dei propri confini, delle proprie terre e dei propri mari (la letteratura sull’argomento è ampia: si veda il recente intervento di Hudson Meadwell sul Brexit Blog della London School of Economics). Dall’altra, l’America trumpiana, all’apice del suo potere e successo, si fregiava di rinunciare al ruolo di “sceriffo del mondo”, trascinatosi dal secondo dopoguerra, optando per una maggiore aderenza a politiche e problematiche interne a discapito di organizzazioni e accordi internazionali (come le Nazioni Unite, l’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici e, più di recente, l’Organizzazione Mondiale della Sanità). Anche queste scelte possono essere facilmente inquadrate in un ritorno di sentimenti nazionalistici nella politica americana. Fa specie che Hazony, nelle prime righe del libro, richiami l’espressione retorica “America first” per riassumere questa tendenza, sottolineando come tale posizione non rappresenti necessariamente una ricaduta nel militarismo e nel razzismo delle epoche passate (come sostengono tanti “accademici e giornalisti”), ma semmai l’occasione per ripensare il nazionalismo secondo il vecchio modello di Roosevelt e di Churchill. Hazony è abile nello scegliere le parole in modo da schivare critiche fin troppo ovvie. Ciononostante, è difficile non notare come la sua analisi esordisca stabilendo un nesso diretto tra una forma di nazionalismo tradizionale, “ampio di mente e generoso di spirito” e il motto “America first”. Tale espressione è tornata recentemente in auge tra i sostenitori di Trump e, in particolare, tra gruppi razzisti e neo-fascisti come i Proud Boys, tra i principali responsabili dei recenti assalti allo United States Capitol a Washington, così come ad altre sedi istituzionali statunitensi, in seguito alla vittoria di Joe Biden nelle ultime elezioni presidenziali. Essa vanta, tuttavia, una lunga tradizione risalente all’America First Committee: il gruppo antisemita che, nel 1940, si opponeva all’intervento degli Stati Uniti nella guerra contro il nazismo. Pur rifacendosi a ben più nobili esempi di nazionalismo, appartenenti perlopiù alla tradizione politica ottocentesca, la ricostruzione di Hazony evita di tracciare alcuna linea di demarcazione tra la sua idea di nazionalismo tradizionale e le forme che tale ideologia ha assunto in tempi più recenti. In entrambi i casi, la nazione è indicata come l’unica fonte del legame di collaborazione e fraternità tra gli individui. In entrambi i casi, tale progetto è sorretto dalla promessa di un equilibrio pacifico tra nazioni sovrane e indipendenti. Mancano strumenti normativi per stabilire una chiara distinzione tra forme di nazionalismo violente e razziste e presunte revisioni virtuose di tale principio. Tra le due parti in gioco rimane, fino alla fine del libro, una zona grigia e inesplorata. Quel che è peggio è che non si tratta di una svista o di un errore di interpretazione. Hazony chiarisce che il suo intento non è di dimostrare la bontà di un certo tipo di nazionalismo, ma piuttosto quello di difendere il nazionalismo tout court, inteso non come fenomeno variegato e problematico, ma come idealtipo assoluto. È per questo motivo che Hazony dichiara di non voler “perdere tempo a cercare di abbellire il nazionalismo chiamandolo ‘patriottismo’” (su questo punto, si veda anche la recensione di Alex Nowrasteh per il Cato Institute blog). Nella sua ricostruzione, il nazionalismo è un monolite che non richiede alcun lavoro di scomposizione critica. La sua incontestata solidità è attestata dalle sue origini bibliche che Hazony si sforza di rintracciare nel primo capitolo del libro. A suo giudizio, la categoria politica di nazionalismo emerge nell’antico testamento e funge da potente contraltare alla visione universalistica propagata dall’impero romano. Tale categoria è tornata al centro della politica globale durante la “costruzione protestante dell’Occidente” laddove i principi di indipendenza nazionale e di autodeterminazione hanno assunto un ruolo fondamentale. Questa visione non è solo storicamente approssimativa, ma anche politicamente pericolosa. L’idea che il nazionalismo sia essenzialmente un’ideologia pacifica e giusta rischia infatti di legittimare preventivamente qualsiasi tentativo, più o meno violento, di servirsene in azioni di potere. Gli eventi del 6 gennaio 2021 a Washington sono, ancora una volta, un esempio limpido di come istanze nazionalistiche, se accettate e propagate acriticamente, possano minacciare le istituzioni democratiche. Gli slogan dei dimostranti, resi popolari da varie piattaforme di estrema destra e social media inneggiavano alla difesa della nazione americana (bianca, cristiana, tradizionalista) contro il “globalist scum” rappresentato dalle élite economiche, il governo “filo-sionista”, Bill Gates, George Soros, ecc. (si legga, a tal proposito, il lungo e dettagliato reportage sull’insurrezione realizzato da Luke Mogelson per il New Yorker). A questi esiti drammatici e grottesti della retorica nationalistica, il libro di Hazony non oppone alcuna resistenza. Poco importa che l’autore dichiari, qua e là, di non voler negare “le numerose ingiustizie che i nazionalisti hanno perpetrato in vari Paesi”. In assenza di un chiaro criterio analitico che consenta di determinare le ragioni di tali ingiustizie e il loro rapporto di dipendenza con l’ideologia che Hazony si propone di difendere, tali dichiarazioni restano vuote.

Un altro argomento cardine in “The Virtue of Nationalism” riguarda la contrapposizione manichea tra nazionalismo e imperialismo. Ancora una volta, questa interpretazione viene costruita a partire da premesse bibliche: la già citata contrapposizione tra globalismo romano e nazionalismo ebraico. Per Hazony, la stessa dicotomia può essere individuata nel mondo odierno, dove nuove forze imperialistiche tentano di imporre il proprio controllo sul resto del mondo ricorrendo agli strumenti economici e finanziari del neo-liberalismo. Gli stati nazione sono dipinti come architetture politiche naturalmente pacifiche e produttive, votate alla pace e alla collaborazione. Colpisce il tono romantico con cui l’autore sviluppa il suo ragionamento.

“Il nazionalista, possiamo dire, conosce due cose molto grandi e le mantiene al tempo stesso entrambe nella sua anima: egli sa che c'è una grande verità e bellezza nelle sue tradizioni nazionali e nella sua fedeltà ad esse; e tuttavia sa anche che esse non sono la somma della conoscenza umana, perché ci sono anche verità e bellezza da trovare altrove, che la sua nazione non possiede”.

Sono le stesse tesi sostenute da Paul Valéry, nei primi anni del XX secolo, secondo cui l’Europa deve la sua fortuna alla sua conformazione politico-culturale che la fa assomigliare a un crogiuolo in cui diverse tradizioni e culture, autonome e indipendenti, hanno stabilito un’intricata rete di contatti che hanno consentito un costante sviluppo dello spirito del continente. Al contrario, tornando a Hazony, il modello imperiale, che per lui si ripropone sostanzialmente immutato, dagli antichi califfati islamici, a Stalin, fino all’Unione Europea, rappresenta un paradigma di piatta omologazione, in cui gli individui e le società non ricevono stimoli sufficienti per raffinarsi e progredire. È difficile non notare la limitatezza storica di tale interpretazione (tra i commenti più efficaci, si legga Michael Shindler su Jacobite Magazine). Almeno due elementi sembrano sfuggire all’autore di “The Virtue of Nationalism”. Innanzitutto, la storia dei rapporti tra stati-nazione è lontano dalla visione di un pacifico scambio spirituale. Si tratta, semmai, di una storia di guerra e sopraffazione. Guerra che ha avuto come teatro le nazioni stesse, impegnate a stabilire la propria egemonia ricorrendo spesso a quegli stessi principi nazionalistici che Hazony evoca come presupposto di giustizia e di libertà, così come territori esterni su cui le varie nazioni europee hanno stabilito la propria supremazia al fine di arricchirsi e di primeggiare. Il sistema coloniale adoperato dagli stati europei – a cui Hazony non allude mai – è un chiaro esempio di come politiche nazionalistiche possano sfociare in azioni imperialistiche. Il processo inverso (da impero a nazione) è anche possibile, e qui si arriva al secondo punto. Storicamente, i sistemi che, secondo il lessico di Hazony, si possono qualificare come imperiali si sono sempre sostenuti anche grazie a principi e retoriche che fanno capo al nazionalismo. Gli esempi si sprecano. Si va dall’Unione Sovietica alla Russia odierna (come dimostrato da Giovanni Savino in un bell’articolo su MicroMega). Dall’America di Theodor Roosevelt (che Hazony identifica come un campione del “nazionalismo tradizionale”, dimenticando la sua politica estera interventistica in America Centrale) a quella di Trump che, lungi dall’essere un semplice nazionalista, ha saputo combinare abilmente i sentimenti xenofobi e isolazionistici di parte del suo elettorato con l’apertura di nuovi conflitti economici e finanziari di scala globale, in particolare con la Cina. In definitiva, il manicheismo di Hazony non sembra stare in piedi. Non esistono nazioni virtuose contrapposte a imperi universali. Le forze si mescolano e il nazionalismo ha spesso fornito armi pericolose a entrambi gli schieramenti.

In un’intervista rilasciata a Haaretz lo scorso ottobre, Hazony lamenta nuovamente la crisi della democrazia occidentale, dovuta alla perdita della tradizione cristiana e dei suoi valori fondamentali (famiglia, tradizione) da cui, a suo giudizio, la democrazia è sorta. Uno dei sintomi di questa crisi è per lui l’incapacità della gente di accettare i principi basilari di qualsiasi sistema democratico: l’avvicendamento al governo, il bilanciamento tra i poteri dello stato, il riconoscimento del ruolo fondamentale dell’opposizione politica.

“Le regole fondamentali del gioco, in una democrazia, sono che la mia parte sceglie il mio candidato, l'altra parte sceglie il suo candidato, e si arriva alla pace reciproca, perché è meglio riconoscere la scelta legittima dell'avversario piuttosto che iniziare a spararsi l'un l'altro per le strade. Cosa succede quando una parte – e a mio parere è più acuto ora negli Stati Uniti e in Gran Bretagna – dice: ‘Avete scelto Trump, o Brexit, e noi non siamo disposti ad accettarlo?’”.

Verrebbe spontaneo chiedere a Hazony un commento sugli avvenimenti provocati dalla sconfitta di Trump alle ultime elezioni. In questa circostanza, la minaccia alla democrazia non è arrivata da forze globalistiche, avverse all’inevitabile ritorno del nazionalismo, ma da quelle stesse forze nazionalistiche di cui Hazony è diventato uno dei teorici di riferimento. A fronte di una battuta d’arresto, queste forze non hanno esitato a fare ciò che Hazony si sarebbe aspettato dagli oppositori di Trump o di Johnson: una reazione dai chiari toni autoritari. Per evitare che simili avvenimenti si ripetano, occorre guardare al nazionalismo per quello che è: un fenomeno complesso che nasconde enormi minacce e che non merita facili apologie. Forse così si potrà prevenire il suo eterno ritorno.

Francesco Tava

Analisi di Francesco Tava, Associate Professor di Filosofia presso la University of the West of England di Bristol

16 febbraio 2021

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