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Una tragedia in montagna

e un dilemma morale senza fine

Foto di francesco Sisti

Foto di francesco Sisti

Sul Monte Bianco si è consumata l’ennesima tragedia. Jose Perez Rodriguez e la sua fidanzata Johanna Malgorzata Winchenciuk sono morti assiderati a 4000 metri, sorpresi da una micidiale tempesta di neve.I loro compagni di scalata raccontano di averli abbandonati sulla cima nel tentativo disperato di salvarsi: "Abbiamo dovuto lasciarli lassù - hanno raccontato il polacco Darius e lo spagnolo Raoul, coinvolti nella drammatica discesa dal Monte Bianco - perché Josè era spossato, non aveva più forze, mentre Joanna aveva perso lucidità, cantava e vaneggiava, non riuscivamo a farla mangiare. Così abbiamo deciso di provare a scendere buttandoci in mezzo alla bufera".
Salvarsi lasciando morire altre persone è una delle condizioni umane più sconvolgenti.
Il regista Kevin Macdonald ha descritto questa situazione in La morte sospesa, uno dei film più belli sulla montagna. Attraverso la ricostruzione della storia vera degli alpinisti Joe Simpson e Simon Yates, il regista indaga in profondità i problemi etici che la lotta per la sopravvivenza comporta.
Durante l’ascesa al Siula Grande, nelle Ande peruviane, Joe Simpson cade in un crepaccio e resta sospeso nel vuoto, attaccato all’amico per mezzo della corda di sicurezza. Simon tenta disperatamente di salvarlo, ma allo stremo delle forze, quando si accorge che continuando a sorreggerlo soccomberebbe con lui, decide di tagliare la corda per cercare la via del ritorno al campo base.
È colpevole Simon per avere abbandonato l’amico? Doveva morire con lui per non rompere un patto di solidarietà umana? Si può sacrificarsi per gli altri in modo incondizionato fino a negare se stessi? Quando si sopravvive in questo modo si incontra spesso il biasimo della società, di chi ritiene con superficialità di potersi ergere a giudice perché convinto che, nelle stesse condizioni, sarebbe stato capace di comportarsi in modo eroico.  
Ma c’è qualche cosa di peggio e di terribilmente umano. Chi abbandona un amico in quelle condizioni sente un peso che difficilmente lo abbandona nel corso della vita. Anche se il destino è insormontabile, l’uomo consapevole, come aveva osservato Dostoevskij, si sente responsabile per dei fatti che non dipendono dalla propria volontà.
La risposta a questi dilemmi morali la offre nel film proprio Joe Simpson, il quale miracolosamente si salvò trovando in fondo al crepaccio una via d’uscita per raggiungere il dorso della montagna.Egli, di fronte alle polemiche e alla crisi morale da cui Simon non si riprese mai del tutto, sentì il bisogno di scrivere un libro per difendere e confortare il suo amico.Il suo messaggio era di una profondità sconcertante: “Se mi fossi trovato al tuo posto - spiega a Simon - mi sarei comportato come te. Sarebbe stato meglio che uno di noi due si salvasse, piuttosto che una morte eroica inutile.”
Joe Simpson affrontava uno dei problemi-chiave dell’etica umana. Non si può chiedere ad un individuo di andare oltre ai propri limiti. Sarebbe una forma di moralismo crudele che cozza contro la fragilità umana.
Confortando il suo amico, Simpson spiegava che il fondamento del rispetto e della solidarietà umana nasce dal riconoscimento della propria e altrui debolezza.
Quando la natura costringe gli uomini alla concorrenza per la vita non si può fare a meno di provare pietà di fronte ad avvenimenti che sfuggono alla volontà dei singoli.
Queste storie di montagna hanno però anche la forza di farci pensare a situazioni di altro tipo. Come sottolineato da due grandi scrittori del novecento, Primo Levi e Varlam Shalamov, testimoni dei lager e dei gulag, la più grande responsabilità dei carnefici è stata quella di creare nei campi una ripetizione artificiosa della crudeltà della natura, costringendo le vittime a disumanizzarsi nella lotta terribile per la sopravvivenza. Ogni attimo di vita significava spesso la morte di un compagno.
Il loro giudizio era per certi versi simile. Fare un esame morale sul comportamento delle vittime non aveva senso perché di fronte a prove così ardue la maggior parte degli uomini soccombe. Ma non comprendere come questo fosse il punto più infamante di una degenerazione politica era intollerabile. Ecco da dove nasceva il loro impegno per la memoria.

Gabriele Nissim, Presidente Fondazione Gariwo

16 luglio 2012

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