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Werner von der Schulenburg

Un uomo contro il nazismo

Gebhard Werner von der Schulenburg nasce a Pinneberg, nel nord della Germania, nel 1881. Discendente da una famiglia nobile, comincia presto la sua carriera militare ma nel 1902 deve lasciare l'esercito per infortunio e da allora decide di dedicarsi allo studio della giurisprudenza. Nel frattempo comincia anche una parallela vita artistica con la scrittura di diversi romanzi, commedie teatrali e raccolte di poesie. Diventa referendario ad Amburgo ma ben presto lascia il lavoro per dedicarsi alla storia dell'arte.

Allo scoppio della prima guerra mondiale si arruola volontario nell'esercito. Più tardi, ferito in un incidente d'auto, viene destinato all'ufficio stampa di guerra. 
Dopo la guerra si trasferisce in Svizzera, anche se mantiene costanti contatti con la Germania, e comincia a occuparsi dello scambio culturale italo-tedesco, anche scrivendo su alcune riviste del settore. Dal 1930 si esprime apertamente contro Hitler e per questo risulta scomodo inviso al regime. Nel 1936 diventa celebre come commediografo e la nuova notorietà gli dà il coraggio di affrontare con ancora più forza il regime, facendo appello al Ministero della propaganda per un intervento a favore di alcuni amici ebrei, atto che gli costa la censura delle sue opere teatrali. 

Nel 1939 si trasferisce a Roma, dove lavora per gli affari culturali dell'ambasciata tedesca; risulta però scomodo in quanto si rifiuta di accettare incarichi che non rispecchino le sue convinzioni civili. 
Durante la seconda guerra mondiale la Gestapo comincia a perseguitarlo. Schulenburg si rifugia allora a Venezia e poi in Baviera. Perde tutti i suoi beni e riesce infine a ottenere un permesso di soggiorno di un anno per cure mediche in Svizzera. 
Dopo la guerra si trasferisce a Magliasina, vicino a Lugano, dove muore a causa di un attacco cardiaco.

Di seguito proponiamo la traduzione di una poesia composta da Werner von der Schulenburg, tradotta da sua figlia Sibyl:

IN FUGA

Guarda, cara, guarda...
Con lame roventi il sole dardeggia
un misero campo di rovine,
l'imago del nostro destino: il crollo usuale
in terra straniera e ostile.

Solo i cipressi si ergono alti
svettanti nella convinzione
di essere alfine vincitori su ogni malevolo strepitare delle cicale.
Annunciano il sorgere del futuro.

Lo senti, cara, il mare...
Vorrebbe consolarci
e col suo chiacchiericcio
virare in gioia lo strazio dell'addio;
invitante, da costa a costa,
se entrambi avremo il coraggio

di viaggiare in Yahweh fuori dal tempo
anche attraverso questo secolo.
Niente paura, niente vendetta, solo sale
della terra, devoti nella fede
che sarà di nuovo patria.

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