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Sulla magia dell’Europa Centrale

di Francesco M. Cataluccio

1. Praga magica. “Ancor oggi, ogni notte, alle cinque, Franz Kafka ritorna a via Celeletná (Zeltnergasse) a casa sua, con bombetta, vestito di nero. Ancor oggi, ogni notte, Jaroslav Hašek, in qualche taverna, proclama ai compagni di gozzoviglia che il radicalismo è dannoso e che il sano progresso si può raggiungere solo nell’obbedienza…”. L’inizio di Praga Magica di Angelo Maria Ripellino lo so a memoria. Nel 1973, quando Einaudi lo pubblicò nella collana cartonata arancione dei Saggi, ero uno studente del liceo e lo potei comprare solo perché il mio babbo mi aveva aperto un “conto illimitato per l’acquisto dei libri” alla libreria Feltrinelli. Non avrebbe mai immaginato che avrei portato a casa un libro “così bello e antirusso” come lo definì dopo averlo divorato anche lui in un paio di giorni.

Angelo Maria Ripellino (1923-1978), leggendario professore di Letteratura russa all’Università di Roma, mi apparve, magro e spiritato come un mistico indiano, con baffetti maliziosi, quando avevo quattordici anni, nel 1970, durante una trasmissione televisiva pomeridiana che guardavo dalla mia nonna Giulia (noi per ragioni “profilattiche” non avevamo la televisone): parlava di Bruno Schulz (era appena uscita la prima edizione italiana, con la sua introduzione, da Einaudi) con una tale contagiosa passione che mi andai subito a comprare non solo Le botteghe color cannella, ma tutti i libri di Ripellino sulla letteratura russa.

Poi arrivò Praga magica: il regalo di un sogno letto e riletto con incredulità e stupore. Senza questo libro non avrei fatto la “pazzia” di studiare il polacco, mentre studiavo Filosofia, e poi il cèco, mentre facevo il militare. L’ho portato sempre con me, persino nei tre anni in cui abitai in Polonia, nella prima metà degli anni ottanta. Convinsi addirittura a tradurlo in polacco un mio amico, Andrzej Jagodziński, grande esperto di letteratura cèca, alcolico traduttore di Hrabal e amico di vecchia data del presidente Havel, futuro direttore dell’Istituto di cultura polacca a Praga e poi Bratislava. La mia copia passò di mano in mano e finì anche in quelle di una sospettosa guardia di frontiera cèca che lo sfogliò distrattamente, guardando le belle foto in bianco e nero che stavano nelle pagine centrali, e poi me lo restituì con un sorrisetto: “È una guida turistica vero?”. Infine, grazie a questo libro di Ripellino, ho immaginato e scritto Vado a vedere se di là è meglio. Quasi un breviario mitteleuropeo (Sellerio 2010).

Praga magica, come efficacemente Ripellino lo definì, è “un saggio-romanzo: il ritratto segreto di una città tenebrosa e incantata, in sui si aggirano febbrilmente astrologhi, manigoldi, alchimisti, fantasmi, architetti, pittori, scrittori, fantocci di cera, gesuiti, autòmati e santi di pietra arenaria”. Ma è anzitutto un atto di amore per Praga, sbocciato agli inizi degli anni sessanta, ai primi bagliori della Primavera politica e culturale: “Non da ieri, non da oggi io amo questa terra, questo popolo, questa città. Ma mi allieto di rivederla ridesta dagli incubi, non più agglomerato di archeologia e di cordoglio, nido di squallore e disperazione, ma Praga-presente. Praga che torna alla luce e dispiega la sua vitalità esuberante…” (AMR, E’ l’ora della Cecoslovacchia, “L’Europa Letteraria”, n. 22-24, 1963 in: AMR, I fatti di Praga, Scheiwiller 1988, p. 21). Inoltre, Praga magica è il monumento di una straziante nostalgia per l’“amata perduta”.

Praga fu vissuta così anche dal suo cittadino Johannes Urzidil (1896-1970), che pubblicò, nel 1956, il bellisimo “romanzo in racconti” Die verlorene Geliebte (L’amata perduta, Adelphi 1982): una sorta di autobiografia fortemente segnata dalla capitale boema. Infine, il libro di Ripellino è anche lo sberleffo malinconico e un graffio indignato contro la violenza dei carri armati del Patto di Varsavia che occuparono la città, nell’agosto del 1968, e costrinsero Ripellino ad abbandonare la Cecoslovacchia, non potendoci (a causa delle sue coraggiose prese di posizione e dei suoi scritti) tornare più, salvo un fugace, e semiclandestino, ritorno nella primavera del 1969. “Da allora cominciò la storia della sua morte, la storia del ferito di Praga. Più che un giornalista rientrato da una missione aveva l’aria di un cavaliere battuto, di un reduce spaesato e malvisto” (G. Ceronetti, in “La Stampa”, 22/IV/1978, p. 3).

2. Il mondo ebraico. In Praga magica c’è molto di più che Praga. Ci sono le chiavi per poter leggere bene il Centro Europa: la sua poesia, le bizzarrie, le tragedie e gli eroismi, la malinconia e l’ironia, l’assurdo dilagante nelle vite dei singoli e nella Storia… E c’è ovviamente il tema dell’ebraismo, qui simboleggiato soprattutto dalla figura del Golem, che non è soltanto una delle testimonianze della presenza ebraica nel cuore dell’Europa: una presenza che è la linfa vitale di Praga e dell’Europa centrale. Il Golem chiama il Dybuk, ma anche Shylock e Gregoria Samsa.

Il "cabbalista" Rabbi Jehudah Loew ben Bezalel (detto il Maharal di Praga), il creatore del Golem, come il Rabbi Elijahu di Chelm, è un "apprendista stregone". Come il Dottor Faust aspirano a essere il Creatore. André Neher ha mostrato bene che sono tutti la stessa cosa. Così come il commerciante di tessuti Jakub Schulz, il padre del malinconico Bruno, l’autore de Le botteghe color cannella (Bruno Schulz, Le botteghe color cannella. Tutti i racconti, i saggi e i disegni, a cura di F. M. Cataluccio, traduzione di Anna Vivanti Salmon, Einaudi, Torino 2001), Jakub incarna, più genericamente, la rivolta dell'uomo contro la sua condizione e, alla fine, l'inutilità dello sforzo di interrogare, il circolo vizioso di uno scandaglio spirituale che, inesorabilmente, riporta l'uomo al punto di partenza.

Nelle teorie e nella pratica di Jakub c'è certamente molto della cabbalistica ebraica, ma nel suo senso più eversivo: il rapporto col Mito e la ripresa di immagini mitiche e di simboli affini alla Natura. Questo è l'aspetto che entra in conflitto con la Tradizione ebraica perchè, come dice Gershom Scholem, la religione ebraica rappresentò "un contrattacco contro il mondo del mito, contro l'identità panteistica di Dio/cosmo/uomo rappresentata dal mito, (...) e cercò di scavare un abisso specialmente e necessariamente invalicabile tra il creatore e la sua creatura". Nella creazione del Golem, o di qualsiasi altro manufatto che si anima e si muove, l'uomo si mette in concorrenza con la creazione di Adamo e quindi con Dio. Ci si imbatte così nell'Utopia di poter dare libero sfogo alle cose senza essere incatenati a nessuna legge o autorità.

Ma la realtà risponde in modo diverso: "Il fato trova mille scappatoie quando si tratta di far passare a forza la sua ineffabile volontà", constata amaramente alla fine del libro l' autore dinanzi alla morte del padre che, da ultimo, aveva compreso che è la materia a servirsi dell'uomo per i suoi fini: "Non era stato l'uomo a introdursi nel laboratorio della natura, bensì la natura che lo aveva attirato nelle sue macchinazioni per raggiungere, sfruttando gli esperimenti di lui, i propri fini che miravano non si sa dove". Determinati impulsi della materia cercavano la propria strada attraverso l'ingegno umano. Tutte le invenzioni di Jakub, delle quali si vantava, non erano che trappole in cui la natura lo attirava, "erano trabocchetti dell'ignoto". Rimane così aperta la questione se Jakub sia demiurgo o servo della Materia, o tutte e due le cose assieme. Diverso è il discorso se, come fa in modo suggestivo Władysław Panas , si legge, secondo le indicazioni di Schulz, Le botteghe color cannella come anticipazione del suo famosoromanzo "ebraico" perduto: Il Messia.

La "Grande Eresia" di Jakub consiste innanzitutto nella teoria, prima ancora che nella pratica, del mercante Jakub. Egli infatti sostiene che il Demiurgo, il creatore dell'Universo, "non ebbe il monopolio della creazione; la creazione è un privilegio di tutti gli spiriti. La materia è dotata di una fecondità senza fine, di un'inesauribile forza vitale e al tempo stesso di un seducente potere di tentazione che ci spinge a creare". Jakub si presenta come un difensore della Materia ("la materia è l'entità più passiva e indifesa del cosmo") e rivendica il diritto ad una creazione propria ("vogliamo essere creatori di una sfera nostra, inferiore, aspiriamo ad una nostra creazione, aspiriamo, in una parola, alla demiurgia"), anticipando che è sua intenzione dare la preferenza, in questa "seconda Genesi" alla tandeta (pacottaglia): "semplicemente perchè ci affascina, ci incanta il basso costo, la mediocrità, la volgarità del materiale". Un amore per la materia "come tale", una materia che permette di "creare una seconda volta l'uomo, a immagine e somiglianza di un manichino".

La questione dei rapporti familiari, il ruolo ormai fragile dei padri ci porta a confrontare Franz Kafka, autore di una straordinaria Lettera al padre (del 1919, ma pubblicata soltano nel 1952), e Bruno Schulz, che fu suo grande ammiratore. Angelo Maria Ripellino ha scritto (nella sua introduzione alla prima edizione italiana delle opere di Schulz): “La metamorfosi di Samsa si accompagna a un dolore sottile e sordo, a un senso di angustia e di soffocamento, mentre le plurime trasformazioni di Jakub si risolvono in burle, in raggiri da illusionista. (...) Diversamente dalla famiglia descritta da Kafka, che sente rifiorire la vita quando crepa Gregorio, i congiunti di Jakub non traggono sospiri di solievo nè si disperano alle reiterate scomparse del padre, quasi avessero fatto il callo alle sue prodezze”.

3. L’umorismo. Nella sua vita lo scrittore boemo Bohumil Hrabal ha avuto spesso a che fare con la carta straccia. Tutte le sue prime opere, fortemente debitrici del surrealismo, furono mandate al macero dalla censura comunista. I libri che vengono fatti tornare pappa di cellulosa sono un po' la metafora della nostra esistenza e della nostra disperata lotta per sopravvivere. Il protagonista del suo capolavoro, una delle opere più importanti della letteratura del nostro secolo, Una solitudine troppo rumorosa, è appunto un addetto (come lo fu anche, per un certo tempo, Hrabal), al macero dei libri. Hanta, prima di gettare via i libri, ne salva i più importanti e li seppellisce, come delle perle, nel mezzo di ogni pacco di carta, scegliendo accuratamente le confezioni, in una sorta di barocco "funerale", dei libri. In questo modo si redime e "contro la sua volontà" diventa un saggio:

"Hanta, il protagonista della mia Solitudine, vive nel fondo, in una sorta di cloaca, ma guarda verso l'alto. Anche se vive nella sporcizia, ha una sua pulizia, anche se vive nella degradazione, ha una sua purezza. Si pensi alle suore che lavano i malati, alle madri che cambiano i pannolini ai loro figli: mentre si occupano di cose sporche sono mosse da pensieri e intenzioni elevate. Il sudicio lavoro di cui si occupa Hanta non gli impedisce di riflettere sul bello, sia esso nelle pagine di Holderlin, o di Goethe o di Novalis...".

Quando Hrabal lavorava con la carta straccia, come il suo protagonista, metteva da parte vecchi libri illustrati e li dava al suo amico, il maestro del collage Jirì Kolàr, affamato di ciarpame per le sue straordinarie composizioni (si veda, in proposito, il libro curato da Angelo Maria Ripellino: Collages, Einaudi, 1976). I due erano coetanei e nello stesso periodo si erano avvicinati al movimento surrealista. Anche Kolàr ha lavorato come panettiere, fabbro, operaio nelle ferrovie, cameriere. Le opere dei due amici sono assolutamente complementari. Giustamente Susanna Roth, nella sua monografia su Habral - Una solitudine rumorosa e un' amara fortuna. Sul mondo politico della prosa di Bohumil Hrabal - paragona il modo di scrivere di Hrabal ai lavori di Kolàr, definendo le sue opere "collage poetici".

L’autore di Ho servito il re d' Inghilterra (e/o), Treni strettamente sorvegliati (e/o); Le nozze in casa (Einaudi) è stato uno degli ultimi "pa' bitel" come amava definirsi: uno "sbruffone" di quelli che hanno popolato l' Europa centrale in questo secolo di guerre e dittature, non smettendo mai di sghignazzare amaramente e guardare alla vita con la saggezza dei grandi bevitori. Nella sua vita Hrabal ha fatto tutti i mestieri: minutante notarile, magazziniere di una cooperativa di consumo, manovale delle ferrovie, telegrafista, capo movimento in un piccolo scalo ferroviario, assicuratore presso la compagnia "Assistenza per la vecchiaia", agente di commercio nella ditta di chincaglierie Klofand, operaio nelle acciaierie "Poldi" di Kladno, imballatore di cartaccia da macero, macchinista-bigliettaio e comparsa in un teatro di Praga. È proprio da questi mille mestieri che Hrabal ha tratto ispirazione per le sue storie e la sua disordinata filosofia della vita. Poco prima di morire aveva scritto:

"Adesso che posso guardare a me stesso come a una terza persona e ad un uomo anziano, adesso mi accorgo che dal tempo in cui ero stato ai forni Martin di Kladno, da allora per me misura delle cose è l’uomo comune, da allora invece che scrittore preferisco definirmi trascrittore, perché non ho fatto che trascrivere quegli avvenimenti e quelle situazioni limite, come un buon reporter".

Ma Hrabal era tutt' altro che uno scrittore "realista". "L' incredibile diventa realtà!", si sente ripetere spesso in Ho servito il re d' Inghilterra. Perché il mondo, aveva capito lo scrittore boemo, è un "guazzabuglio di stranezze e magie". Roba da perdere la testa! Una miriade di personaggi minuti e bizzarri, solo apparentemente schiacciati dalla violenza della Storia, che si prendono rivincite negli anfratti più impensati, nell' allegra follia, in picaresche avventure, tra i seni delle donne, i boccali traboccanti di birra e pantagrueliche mangiate. Ciascuno con la propria filosofia dell' esistenza che difende con cocciutaggine e orgoglio. Operai, camerieri, intellettuali "degradati" al lavoro manuale, studenti squattrinati e un po' poeti, fannulloni di varia natura, popolano i racconti di Hrabal. Tutti figli ideali di quel "genio" variante moderna, l'unica possibile nella nostra epoca, di Don Chisciotte: il soldatino Svejk di Hasek. Una figura in continua fuga dall'esercito, dalla guerra, dalle ideologie. 

I protagonisti di Hrabal sono tanti piccoli Svejk che parlano il linguaggio di Celine. La poesia di Hrabal sgorga da quello strano mondo dove si muovono i suoi malinconici e ironici clown. Un mondo che ha i contorni magici dei luoghi di lavoro dove Hrabal è stato confinato durante la sua turbolenta esistenza. Lui che, per indole, se ne sarebbe stato tranquillamente nella sua Nymburk ("dove si è fermato il mio tempo") o in qualche cantuccio di Praga, della quale diceva: “Praga è una città piena di poesia, di incontri e di sorprese”.

Francesco M. Cataluccio, Responsabile editoriale della Fondazione Gariwo

22 marzo 2018

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