Nell’ambito della Giornata europea dei Giusti, quest’anno verrà ricordato e iscritto nel novero di quanti si sono distinti per atti di “virtù quotidiana”, secondo l’accezione che a questa espressione dà l’associazione Gariwo, anche Piero Martinetti. Filosofo tra i più importanti del Novecento Italiano, distintosi in più occasioni per l’esempio civile dimostrato nel suo opporsi alla repressione di regime.
Nato a Pont Canavese nel 1872, compiuti gli studi filosofici a Torino e in Germania e ottenuta, nel 1906, la cattedra di filosofia all’Accademia scientifico-letteraria di Milano (poi Regia Università), Martinetti, a differenza di importanti liberali italiani come lo stesso Benedetto Croce, mantenne nei confronti di Mussolini e del suo movimento un parere fortemente critico fin dal suo emergere, come dimostrano alcune carte inedite conservate all’Accademia delle Scienze di Torino e risalenti al 1925. La forza utilizzata come strumento di acquisizione del consenso, la violenza nei confronti degli avversari politici erano, a suoi occhi, segno del prevalere di un carattere nichilista e anti-religioso, oppressivo dell’ideale di libertà a cui il filosofo era fortemente legato. Il primo momento di esplicita frizione fu il Congresso di filosofia del 1926, di cui era stata affidata l’organizzazione proprio a Martinetti. Il Congresso subì l’ostilità del mondo cattolico, a causa dell’invito del sacerdote modernista Ernesto Buonaiuti, scomunicato vitando,e venne successivamente chiuso d’autorità su ordine del regime fascista. Ufficialmente, per motivi di ordine pubblico, più realisticamente a causa dell’indirizzo liberale di molti partecipanti. Il Ministero dell’Istruzione avviò provvedimenti disciplinari nei confronti di Martinetti, che, tuttavia, non portarono a un suo allontanamento dall’Università.
Una risposta agli eventi del 1926 può ben essere considerata la pubblicazione, per la Casa Editrice Lombarda, de La libertà (1928), libro forse tra i più alti della riflessione filosofica novecentesca, non solo italiana e la cui influenza si eserciterà su di un’intera generazione di studenti, a cominciare da figure come Ludovico Geymonat e Norberto Bobbio. Preceduto, come usanza del tempo, da un’ampia trattazione storica, il libro tenta di elaborare un’immagine della libertà in contrasto con quella che Martinetti definisce “libertà d’indifferenza” e che considera l’immagine precipua del mondo contemporaneo. Un’immagine che fa coincidere la libertà con la possibilità di soddisfare l’impulso del momento. Per il filosofo canavesano, la libertà coincide con l’autonomia della coscienza, da conquistarsi attraverso il contatto con i grandi valori della Giustizia, della Bellezza e della Bontà trasversali a tutte le epoche. Solo prendendo coscienza di una Giustizia capace di trascendere i diversi periodi storici, l’individuo può essere libero rispetto ai condizionamenti del proprio tempo.
La rottura definitiva fra Martinetti ed il regime avverrà nel 1931, quando Mussolini impose ai professori universitari un giuramento di fedeltà al partito fascista, che andava a sommarsi al giuramento nei confronti del Re. Se quest’ultimo poteva essere ammesso in quanto super partes, impossibile accettare l’imposizione mussoliniana, subordinando la propria coscienza alle esigenze faziose di un partito, qualunque esso fosse ed ancor di più se repressore ed anti-libertario. Le parole con cui Martinetti rispose alla richiesta governativa restano uno dei simboli più alti della sua fermezza etica: «Ho sempre diretto la mia attività filosofica secondo le esigenze della mia coscienza, e non ho mai preso in considerazione, neppure per un momento, la possibilità di subordinare queste esigenze a direttive di qualsivoglia altro genere. Così ho sempre insegnato che la sola luce, la sola direzione ed anche il solo conforto, che l’uomo può avere nella vita è la propria coscienza; e che il subordinarla a qualsiasi altra considerazione, per quanto elevata essa sia, è un sacrilegio. Ora col giuramento che mi è richiesto io verrei a smentire queste mie convinzioni ed a mentire con essa tutta la mia vita».
Ritiratosi nei suoi luoghi di origine in compagnia degli amati libri, Martinetti rappresentò, negli anni travagliati del consenso al Regime prima e della guerra poi, un punto di riferimento morale e civile per moltissimi giovani pensatori, attirati a Castellamonte (TO) dalla fama del suo libero pensiero. Con un manipolo di pochi collaboratori mantenne in vita la «Rivista di filosofia», una delle poche voci in quel periodo non allineate al pensiero egemonico della cultura di regime.
Se il suo gesto del ’31 è stato più volte ricordato e analizzato da pubblicazioni scientifiche, sconosciuta, fino a non molto tempo fa, era invece una ulteriore attestazione di opposizione alle direttive fasciste. Nel 1938 infatti si rese protagonista di uno dei pochi atti di cui si abbia conoscenza di respingimento delle schede di censimento razziale tra gli accademici italiani. Oltre che nel mondo della scuola e dell’università, da cui era da tempo volontariamente uscito, venne infatti indetta, nell’agosto 1938, un’indagine razzista anche all’interno delle «Associazioni di scienze, lettere ed arti», tra le quali l’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere e l’Accademia delle Scienze di Torino, istituzioni delle quali Martinetti faceva ancora parte. Egli ricevette pertanto i moduli, ma li rispedì, il 31 agosto, a entrambe le istituzioni, accompagnandoli con brevi comunicazioni in cui era ben visibile il suo dissenso per una tale iniziativa: «Le respingo il questionario ricevuto, al quale mi rifiuto di rispondere», scrisse all’Accademia delle Scienze di Torino. Quella lettera però non giunse mai a Roma. A Torino infatti, dove tutt’ora si trova,il commissario prefettizio dell’Accademia, Vittorio Cian, al quale era indirizzata,la occultò, facendo spedire al suo posto il questionario razziale che si prese la briga di compilare e di firmare (falsificando la firma di Martinetti); fu questo un chiaro tentativo di dimostrare al Regime l’assenza nelle file dell’accademia da lui presieduta di personalità resistenti alle pressioni del Regime. Personalità che Martinetti certamente incarnava.