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Mandela al Giardino dei Giusti di Milano

editoriale di Gabriele Nissim

Il destino è qualche volta paradossale. Ci siamo ritrovati pochi giorni fa a Palazzo Marino di Milano con i garanti del Giardino dei Giusti - lo scrittore Francesco Cataluccio, il professore di Relazioni internazionali dell'Università Cattolica di Milano Vittorio Emanuele Parsi, il presidente del Consiglio comunale Basilio Rizzo e il vicepresidente Andrea Fanzago - per l’annuale approvazione dei Giusti a cui il 6 marzo prossimo verrà dedicato un albero al Monte Stella.
Eravamo davvero contenti per la scelta che ha portato al riconoscimento morale della straordinaria figura di Nelson Mandela.

Volevamo dirgli "grazie!", quando era ancora in vita, pur sapendo che le sue condizioni fisiche erano particolarmente critiche.

Il giorno dopo è arrivata la notizia: Mandela ci ha lasciato e non saprà mai che Milano lo considera un esempio di vita per l’Umanità intera e per i giovani di oggi e di domani.

Di lui si conosce quasi tutto. I grandi interpreti della musica rock, ma soprattutto i jazzisti - come Oscar Peterson ed Abdul Hibrahim, che hanno visto in lui l’emblema dell’emancipazione del popolo africano - gli hanno dedicato brani e canzoni. Lo hanno ricordato calciatori famosi in tutti gli stadi, come Ruud Gullit, che nel 1987 gli ha voluto dedicare il pallone d’oro, il maggiore riconoscimento calcistico.

C’è però un punto che vorremmo sottolineare. Mandela è stato capace, con la sua resistenza morale in carcere, di diventare il punto di riferimento per tutti coloro che si battevano contro l’apartheid, trascinando con la sua schiena dritta un popolo alla liberazione.
E poi ha fatto il miracolo che nessuno si sarebbe mai aspettato in Africa, viste le umiliazioni e le vessazioni del razzismo bianco. Dopo la liberazione ha insegnato a non odiare e ha chiamato gli oppressi e gli oppressori di ieri a sedersi allo stesso tavolo e a ricostruire assieme il Paese.

Tanti avevano pronosticato in Sudafrica una resa dei conti sanguinosa contro i bianchi, ma Mandela - assieme al vescovo Desmond Tutu - ha creato la Commissione per la verità e la riconciliazione, dove i carnefici sono stati invitati a riconoscere le loro colpe e le vittime a perdonare.

Dietro a questa esperienza giocano due grandi intuizioni.
Esercitare la vendetta - come ha ricordato Adriano Sofri - avrebbe rappresentato una sconfitta per le vittime dell’apartheid, perché avrebbe significato che il nuovo Sudafrica sarebbe stato costruito da uomini che ancora una volta seminavano l’odio.
Mandela ha invece lanciato un messaggio controcorrente. La segregazione razziale aveva derubato gli oppressi e gli oppressori della loro umanità e dunque insieme dovevano marciare per la ricostruzione del Paese.

In secondo luogo il leader del Sudafrica ha voluto insegnare che le vittime di ieri non godono di nessun privilegio come di nessun alibi per le loro azioni, quando ritrovano la via della salvezza, e che possono riscattarsi soltanto quando - come ricorda Primo Levi - dimostrano di non essere state contaminate dai loro oppressori.

Mandela non avrebbe mai permesso quel che è successo a Gaza dopo il ritiro dei coloni, quando la prima azione piena di odio fu la distruzione vandalica delle case in cui abitavano gli israeliani. È una liberazione andata male quella che ricerca la vendetta e non la conciliazione.

Egli aveva ben compreso, nonostante tutti gli anni di prigionia, come la liberazione da una tirannia ingiusta rappresenta soltanto la metà dell’opera, poiché se vittime e oppressori insieme non sono capaci di una purificazione morale, tutto può ritornare come prima, anche se il potere è stato capovolto.

Gabriele Nissim

Analisi di Gabriele Nissim, Presidente Fondazione Gariwo

6 dicembre 2013

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