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Premio Nobel per la Pace a Nadia Murad e Denis Mukwege

per il loro impegno nella lotta agli stupri di guerra

Il Premio Nobel per la pace è stato assegnato a Denis Mukwege e Nadia Murad "per i loro sforzi per mettere fino all'uso della violenza sessuale come arma in guerre e conflitti armati”.
Lo ha annunciato il Comitato norvegese per i Nobel, spiegando che entrambi i premiati hanno dato un contributo essenziale per portare l’attenzione sui crimini di guerra.

Mukwege ha dedicato la sua vita ad aiutare e difendere in Congo le donne vittime di violenze e abusi. Murad, yazida, ha invece testimoniato al mondo il dramma del suo popolo.

Denis Mukwege, medico congolese, ha creato una struttura, il Panzi Hospital di Bukavu, per curare e soccorrere le vittime dello “stupro come arma di guerra”, nonostante le minacce subite dai gruppi armati del Paese. Figlio di un pastore pentecostale, Denis decide di diventare un medico quando, accompagnando il padre durante le visite ai malati della comunità, si accorge che le pazienti dell’ospedale ottengono cure insufficienti e spesso muoiono dopo il parto.
Durante la guerra in Congo, nel 1998, Mukwege inizia la costruzione dell'ospedale per le donne vittime di violenza. Con il suo team opera più di 20mila donne, lavorando anche 18 ore e compiendo fino a 10 interventi al giorno. Il coraggio di questo straordinario chirurgo permette alle vittime di iniziare una nuova vita. Accanto all’ospedale creato da Denis, infatti, negli anni viene costruita una struttura sicura dove le pazienti - e i loro figli - trovano rifugio. Le donne imparano il cucito, la tessitura e altri lavori, per diventare autosufficienti e ricominciare a vivere. Nel 2012 il chirurgo tiene un importante discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, per sensibilizzare sul problema delle violenze come arma di guerra e condannare l’impunità dei colpevoli di stupri di massa in Congo. Pochi mesi dopo, quattro uomini armati attaccano la sua casa, tenendo in ostaggio le sue figlie. Durante la sparatoria verificatasi al suo ritorno dall’ospedale, Mukwege riesce a salvarsi buttandosi a terra, ma dopo questo tentato omicidio lascia il Paese per recarsi in esilio in Europa.
Nel gennaio 2013 Denis decide di tornare in Congo, nonostante le continue minacce rivolte a lui e al suo team. La popolazione gli riserva un’accoglienza speciale, accompagnandolo dall’aeroporto a Bukavu. Le sue pazienti, inoltre, raccolgono i soldi per pagargli simbolicamente il biglietto di ritorno vendendo ananas e cipolle.
Per il suo impegno e il suo coraggio, Denis Mukwege ha ottenuto diversi riconoscimenti, tra cui il Premio dei diritti umani delle Nazioni Unite nel 2008 e il Premio Sacharov per la libertà di pensiero nel 2014, assegnato ogni anno dal Parlamento europeo a individui o associazioni che si sono distinti nella difesa dei diritti dell’uomo.

Nadia Murad, che abbiamo incontrato a Milano nel 2016, è una delle donne yazide rapite dallo Stato Islamico. Ha trascorso tre mesi nelle mani dei suoi aguzzini, subendo violenza collettiva e individuale e assistito all’uccisione di sua madre - troppo vecchia per diventare schiava sessuale - e di sei dei suoi fratelli. Nel novembre 2014 è riuscita a fuggire con l'aiuto di una famiglia che l'ha portata di nascosto al di fuori della zona controllata dall’Isis. Da quel momento, la sua voce è arrivata anche all’ONU per denunciare il genocidio di cui è vittima il suo popolo. "Ci hanno portati a Mosul con oltre 150 altre famiglie yazide - ha dichiarato Nadia di fronte al Consiglio di sicurezza - In un edificio c’erano donne e bambini che venivano scambiati come fossero regali. L’uomo che ha preso me, mi ha chiesto di cambiare religione. Ho rifiutato. Poi ha chiesto la mia mano per sposarmi, per così dire. Quella notte mi ha picchiata. Mi ha chiesto di togliermi i vestiti. Mi ha portata in una stanza con le guardie, e lì hanno commesso il loro crimine fino a quando sono svenuta. Vi imploro, eliminate Daesh [ISIS] completamente."
“Una volta fuggita ho sentito come mio dovere quello di raccontare al mondo la brutalità dello Stato Islamico. Le donne yazide speravano che, raccontando le nostre esperienze di sterminio, stupro e riduzione in schiavitù, avremmo portato il genocidio sotto i riflettori del mondo, ma adesso ciò di cui abbiamo bisogno veramente sono azioni concrete per ottenere giustizia e permettere alla nostra comunità di ritornare in patria”. “Siamo di fronte a crimini contro l’umanità, che non dovrebbero più avere luogo nel 21esimo secolo - ci raccontava Nadia -. I cadaveri dei miei fratelli, dei miei parenti, di chi viene ucciso, non possono rimanere esposti all’aria senza essere sepolti. Le campane delle chiese delle nostre città non devono fermarsi. L’uomo non può essere una merce, non può essere privato della sua libertà”. 
Per la sua fondamentale testimonianza, Nadia ha ottenuto diversi riconoscimenti, tra cui il Premio Sacharov per la libertà di pensiero nel 2016.

5 ottobre 2018

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