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Comprendere i cambiamenti climatici

intervista a Filippo Giorgi

La copertina del libro di Filippo Giorgi

La copertina del libro di Filippo Giorgi

Sempre più spesso sentiamo parlare di riscaldamento globale, cambiamenti climatici e impatto di questi fenomeni sui diritti umani. Durante l’incontro internazionale di GariwoNetwork abbiamo lanciato il grande tema dei Giusti per l’ambiente, donne e uomini impegnati nella difesa di ecosistemi, popolazioni indigene, risorse naturali, che con la loro azione si battono per la salvezza del pianeta. 
Ma cosa sono i cambiamenti climatici? E quali strategie adottare per contrastarli? Lo abbiamo chiesto a Filippo Giorgi, responsabile della sezione di Fisica della Terra dell’International Centre for Theoretical Physics (ICTP) di Trieste che ha contribuito anche alle attività dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), autore di un libro, L’uomo e la farfalla; Sei domande su cui riflettere per comprendere i cambiamenti climatici (FrancoAngeli Editore), in cui sono affrontati diversi aspetti legati ai cambiamenti climatici: cause, rischi, scenari, possibili soluzioni.
Ecco che cosa ci ha detto.

Da quanto tempo si parla di cambiamenti climatici?

Negli anni ’50, un team guidato dallo scienziato Charles Keeling cominciò a monitorare l’atmosfera nella stazione di rilevamento di Mauna Loa, nell’isola di Hawaii, e si accorse che la concentrazione di anidride carbonica era in costante aumento. Il primo allarme su queste tematiche è tuttavia arrivato negli anni ’70.
Nel decennio successivo il dibattito è proseguito all’interno dell’Organizzazione mondiale della Meteorologia (World Meteorological Organization, WTMO), fino alla costituzione, nel 1988, dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC). Questo gruppo, incaricato di produrre valutazioni periodiche sul riscaldamento globale, ha poi ricevuto il Premio nobel per la Pace nel 2007, insieme ad Al Gore.

Nel suo libro L’uomo e la farfalla risponde, capitolo dopo capitolo, a “sei domande su cui riflettere per comprendere i cambiamenti climatici”.
Ma cosa causa tali cambiamenti? E come misurarli?

Ormai molte evidenze mostrano che il clima terrestre è in una fase di riscaldamento globale. Innanzitutto, dall’inizio del secolo, misure da decine di migliaia di stazioni meteo ci dicono che la temperatura globale si è innalzata di poco più di un grado. Altre evidenze sono poi lo scioglimento dei ghiacciai, l’aumento del livello del mare, lo scioglimento dei ghiacci artici, l’aumento di eventi meteorologici estremi. Tali fenomeni rendono unanime la comunità scientifica nell’affermare che ormai ci troviamo in una fase di riscaldamento. Nella vita quotidiana, questo è percepito da tutti. In montagna i ghiacciai sono in fase di recessione, le temperature estive sono aumentate in maniera marcata, il livello del mare anche lungo le coste italiane si innalza (circa 25 cm negli ultimi 100 anni), ci sono sempre più frequenti eventi estremi come quelli che si sono verificati a fine ottobre nel Nord Italia.
Per quanto riguarda lo studio delle cause, nel corso degli anni sono aumentati studi e modelli climatici sempre più attendibili. Negli anni ’70 e ’80 non vi era una forte evidenza scientifica sulle cause del riscaldamento, perché si era agli inizi di questo trend. Oggi siamo sicuri - con una probabilità del 95%, secondo l’ultimo rapporto IPCC - che tale fenomeno sia dovuto all’aumento di gas serra di origine antropica, ovvero l’anidride carbonica prodotta dall’uso di combustibili fossili - petrolio, carbone, gas naturale - e il metano prodotto da alcune pratiche agricole intensive.

Come ricorda nel suo libro, il clima può cambiare a causa di fattori esterni, chiamati “forzanti”, che possono essere naturali o antropici. In che modo tali forzanti influenzano il riscaldamento globale? E qual è quindi l’impatto umano su questo fenomeno?

Dal 1950 in poi, il riscaldamento è dovuto per la maggior parte all’impatto antropico, piuttosto che ai forzanti naturali - il cui principale è sostanzialmente la radiazione solare. A riprova di questo, basti pensare che negli ultimi 50 anni tale radiazione è stata abbastanza costante, anzi semmai è diminuita leggermente, e in un certo senso ha in qualche modo controbilanciato l’effetto dei forzanti antropici. Quindi la maggior parte del riscaldamento è dovuta all’aumento di gas serra, e su questo concorda praticamente tutta la comunità scientifica che studia questo fenomeno.

Riscaldamento globale, cambiamenti climatici… Tutto questo causa notevoli rischi. Quali sono i più preoccupanti?

Ci sono quattro principali rischi che influenzano le attività umane e tanti settori socioeconomici.
Il primo è lo scioglimento dei ghiacciai continentali, che contengono la maggior parte dell’acqua dolce oggi disponibile (circa il 65%). La diminuzione della loro massa significa perdita di acqua, e siccome già oggi l’acqua è scarsa e la richiesta è sempre maggiore - soprattutto in Paesi emergenti come India o Cina, la cui fonte idrica principale sono i ghiacciai dell’Himalaya -, possono verificarsi seri problemi di disponibilità di questa risorsa, con impatti anche sulla produzione di cibo.
Il secondo, strettamente legato, è l’innalzamento del livello del mare: se i ghiacciai continentali si sciolgono, l’acqua finisce in mare. In più, le acque del mare si stanno riscaldando e questo produce una espansione dell’acqua, causando quindi un innalzamento del livello marino. Questo naturalmente genera grandissimi problemi nella zone costiere. Prima di tutto, un aumento dell’erosione e la scomparsa delle coste, con ingenti danni alle infrastrutture. In secondo luogo, mareggiate e alluvioni costiere sempre più dannose. Molte zone del mondo, come ad esempio Bangladesh e India, ogni anno sono soggette ad alluvioni per i Monsoni; in presenza dell’innalzamento del livello del mare, tali alluvioni sarebbero più dannose. Un altro problema molto grave è poi quello dell’intrusione dell’acqua salina nel suolo, che ne distrugge la fertilità. Questo sta avvenendo, per esempio, nel delta del Nilo, ma anche, venendo più vicino a noi, in molte zone costiere del Veneto e del Friuli.
Il terzo rischio che voglio sottolineare è l’aumento di fenomeni meteorologici estremi, in quella che è definita intensificazione del ciclo idrologico. Un’atmosfera più calda è più energetica e può contenere più vapor d’acqua. Di conseguenza, avendo a disposizione più energia e più vapor d’acqua, gli eventi piovosi sono più intensi, con un maggiore rischio di eventi alluvionali. Per esempio, uno dei motivi per cui in Italia le piogge e i venti di fine ottobre sono stati così devastanti è che abbiamo avuto mesi precedenti molto caldi, con elevate temperature del Mediterraneo, e questo ha fornito molta energia e molto vapor d’acqua alle perturbazioni. Abbiamo visto il verificarsi di due o tre “uragani mediterranei” (non veri e propri uragani, ma con simile struttura), fenomeni che in genere non si presentano così numerosi in poco tempo. In aggiunta, i modelli climatici ci dicono che si allungano i periodi secchi tra un periodo piovoso e l’altro, fattore che aumenta il rischio di siccità.
C’è poi un quarto fattore, molto importante: la distribuzione geografica dei cambiamenti climatici, che non sono percepiti in tutte le zone del mondo allo stesso modo. Esistono delle cosiddette “zone calde”, come il Mediterraneo, più sensibili e vulnerabili al riscaldamento globale. Se tali zone si trovano in Paesi poveri, questo può aumentare il rischio di migrazioni di massa.

Il tema dei rifugiati climatici è infatti già oggi molto attuale

Le persone si spostano - e si sono sempre spostate - per molti motivi. È difficile associare in maniera univoca clima e migrazioni. Tuttavia, per capire questo legame, faccio spesso un esempio. Nel 2010, in Kashmir, ci sono state alluvioni di intensità mai vista prima, con un impatto su circa 20 milioni di persone, molte delle quali sono state evacuate. Un evento di tale portata, in un clima normale, può verificarsi forse una volta ogni 50-100 anni; la gente quindi torna nelle proprie città e ricostruisce le proprie case e attività, per ricominciare la vita quotidiana. Se invece questi fenomeni si verificano ogni 3 o 4 anni - e si prevede che ciò possa accadere in un clima più caldo - le persone non tornano più in quei luoghi, ma si spostano altrove.
A questo va aggiunto che gli stress climatici possono andare ad aggravare situazioni già delicate, come molti sostengono che stia avvenendo - o avverrà - in Medio Oriente.

Di fronte a tutto questo, come reagisce la politica?

Vorrei fare una premessa. L’accordo di Parigi sul clima, nel 2015, richiedeva una diminuzione delle emissioni. Da questo punto di vista, sia l’Europa che gli Stati Uniti si dimostrano abbastanza virtuosi. In Europa le emissioni stanno diminuendo, grazie a una forte spinta verso tecnologie alternative, cosiddette "green"; questo è vero anche in America dove, nonostante gli ultimi avvenimenti politici, le emissioni sono abbastanza costanti e penso presto cominceranno a diminuire. Il problema oggi è rappresentato dai Paesi emergenti - come Cina, India, Brasile, Russia, e prima o poi anche l’Africa. Essi reclamano il proprio diritto a svilupparsi poiché, nonostante adesso siano i maggiori emettitori, non sono loro ad aver causato il problema fino ad ora. È qui, attorno a questo nodo, che si arenano le discussioni politiche.
Io non sono fiducioso sul fatto che si possa raggiungere un accordo internazionale a livello governativo, perché in questo ambito le tempistiche - si parla del 2030, 2050 - sono molto al di là delle tempistiche della politica, soggette fisiologicamente a continui cambi di amministrazione. Più che in queste negoziazioni, dove è forte anche il ruolo delle lobby sui governi, serve una spinta dal basso, dalla società civile, per dirigersi verso un modello di green economy.

Siamo davanti a qualcosa di irreversibile, e dobbiamo quindi solamente adattarci a questi fenomeni, o è ancora possibile intervenire?

Sicuramente siamo ancora in tempo a intervenire. Non dobbiamo però dimenticare che più le temperature si alzano, più l’impatto di questi fenomeni sarà grave.
Si tratta comunque di contenere il problema entro limiti in cui politiche di adattamento riescano a controbilanciare gli effetti dei cambiamenti climatici. Per esempio, se ci si aspetta un innalzamento del livello del mare, si costruiscono argini o dighe costiere più alte, come sta accadendo in Olanda.
Il riscaldamento globale, infatti, continuerà. Il punto è, e sarà, di contenerlo entro limiti che riteniamo accettabili - e contenibili appunto con misure di adattamento sostenibili. Torno a parlare della Conferenza di Parigi. Qui la discussione si è svolta intorno all’obiettivo della soglia dei 2 gradi di riscaldamento rispetto ai valori preindustriali. In realtà Parigi parla anche di 1.5 gradi, ma poiché già oggi abbiamo raggiunto la soglia di 1.1 gradi, restare sotto gli 1.5 in poco tempo non penso sia possibile. L'obiettivo dei due gradi (in realtà circa un grado rispetto ai valori attuali) è invece pienamente raggiungibile con un’azione urgente e vigorosa sulla riduzione dell'uso di combustibili fossili.
Il problema però non sono solo i numeri delle soglie. Io penso che la questione principale e più pericolosa sia il cosiddetto scenario business as usual, quello più estremo, in cui la concentrazione di anidride carbonica continua ad aumentare in assenza di contromisure adeguate. Se non si agisce, il clima globale può riscaldarsi fino a 4-5 gradi in un secolo. E non è mai accaduto, almeno nelle ultime decine di migliaia di anni, che in un secolo l’aumento della temperatura globale avesse valori così alti. Basti pensare che l’ultima era glaciale, il cui picco è stato 18 mila anni fa, aveva un clima completamente diverso, con un livello del mare di 120 metri più basso, e allora il clima era più freddo di 5 o 6 gradi. Quindi, raggiungendo in un prossimo futuro i 4-5 gradi di aumento, saremmo davanti a una perturbazione comparabile alla differenza tra un’era glaciale e un periodo interglaciale, ma in un periodo di soli 100 anni, non migliaia di anni. Nell’era dei dinosauri, decine di milioni di anni fa, le temperature erano molto più alte di adesso - fino a 6-8 gradi in più -, la concentrazione di anidride carbonica era molto più alta e sulla Terra non vi erano ghiacciai. Tuttavia, una situazione simile oggi sarebbe devastante: buona parte dell'Italia, ad esempio, non ci sarebbe più a causa del maggiore livello del mare.
Se il clima cambia, la natura si adatta. Il problema è come i cambiamenti climatici impattano la società umana, che potrebbe diventare qualcosa di completamente diverso nelle strutture e negli equilibri. Basti pensare che i migranti potremmo essere noi, costretti a spostarci in zone lontane, perché il Mediterraneo è una zona calda a rischio desertificazione. Quindi salvaguardare il clima significa salvaguardare la nostra società e le nostre comunità, e in particolare il futuro dei nostri figli e nipoti.
La “farfalla” che dà il titolo al mio libro, che si riferisce all’ “effetto farfalla” di Lorenz, l'inventore della teoria del caos, altro non è che la complessità del sistema climatico, la sua grande variabilità: non possiamo sapere con certezza come il sistema climatico, così complesso e interconnesso, potrà reagire a perturbazioni di una tale dimensione e velocità , neanche con i nostri modelli attuali più avanzati.

Ritiene che saremo considerati la generazione che ha visto i cambiamenti climatici e non ha fatto nulla per evitarli, o riscopriremo la solidarietà di genere, quello umano, di fronte a una minaccia globale?

Io penso che a evitare la catastrofe sarà non tanto la solidarietà (che purtroppo in questi tempi non sembra essere un forte valore nelle nostre società), ma la sopravvivenza. La specie umana ha avuto numerosi momenti in cui poteva autodistruggersi, come la crisi nucleare, ma alla fine non è successo, ogni folle minaccia è stata fermata. Penso quindi che, come specie, abbiamo una grande resilienza, e quindi ritengo che con una maggiore consapevolezza di questo problema si andrà verso una soluzione - che è completamente a portata di mano. Inoltre, è importante sottolineare che tale soluzione non richiede cambiamenti epocali, ma è questione di uso più razionale ed equo delle risorse che abbiamo.
Occorre ridurre gli sprechi - basti pensare che sprechiamo il 60% dell’energia che produciamo - e puntare sulle energie rinnovabili, che già oggi potrebbero fornire tutto il fabbisogno energetico mondiale, senza neanche il bisogno di sviluppare nuove tecnologie rivoluzionarie. Il problema delle rinnovabili non è tanto la disponibilità e produzione di energia, quanto la sua distribuzione.
Secondo me, non si tratta quindi di stravolgimenti epocali nella struttura della società.
Certo, molti settori basati sui combustibili fossili sarebbero colpiti da simili misure, ma io credo che l’era del petrolio sia finita, e anche Paesi come l’Arabia Saudita se ne stanno rendendo conto: la stessa Riad sta infatti costruendo un impianto fotovoltaico che, una volta terminato, sarà il più potente di tutta la Terra. La spinta verso la green economy è quindi una scelta di razionalità, a mio parere ormai inarrestabile.
In ogni caso, è importante valorizzare la cultura ambientale. In Italia è totalmente assente, percepita come qualcosa di “politico”. Paradossalmente, in Italia l’ambiente è spesso visto come un nemico che ostacola lo sviluppo, ma questo è assurdo: avere un ambiente migliore significa avere una vita migliore per tutti noi.

Martina Landi, Responsabile del coordinamento Gariwo

13 dicembre 2018

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