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Morire per l'ambiente

Negheremo gli omicidi come facciamo coi cambiamenti climatici?

Il nome Irma appare in questi giorni su qualsiasi mezzo d’informazione, si cercano motivazioni e responsabili come ogni volta che si verifica un disastro di questo tipo, si contano i danni, si pianifica come “tornare alla normalità”.

Ma come possiamo difenderci dall’emergenza ambientale se chi cerca una soluzione rischia la vita?

Il 2016 è stato l’anno peggiore per gli attivisti che lottano per la salvaguardia del nostro ecosistema. Il numero di quelli che hanno perso la vita, o per meglio dire che sono stati assassinati, è aumentato in modo esponenziale fino a raggiungere 200 persone accertate. ll fenomeno inoltre non è solo cresciuto in termini numerici, ma si è anche espanso a livello territoriale, coinvolgendo Paesi che prima non ne erano interessati e aggravandosi considerevolmente a fronte del mutamento climatico globale - che ovviamente rende la situazione sempre più delicata. A questo proposito Global Witness - ONG internazionale nata nel 1993 che lavora per rompere i legami tra sfruttamento delle risorse naturali, conflitti, povertà, corruzione e violazioni dei diritti umani - ha compiuto un forte gesto di denuncia rilasciando un rapporto chiamato Defenders of the Earth con la lista degli assassinati e le loro storie, una profonda descrizione Paese per Paese del fenomeno, degli interessi economici di chi lo guida, dei soggetti maggiormente a rischio. Il fascicolo è in corso di realizzazione anche per il 2017, in cui purtroppo l’elenco dei morti è già alla 134esima voce.

Jakeline Romero - un’indigena colombiana che ha dovuto affrontare anni di minacce e intimidazioni per aver protestato contro il devastante impatto di El Cerrejón, la più grande miniera a cielo aperto dell’America Latina - si è espressa sulla questione con queste parole: “Ci minacciano per farci stare zitti. Ma io non posso stare in silenzio di fronte a tutto ciò che sta accadendo alla mia gente, combatto per la nostra terra, per la nostra acqua, per le nostre vite.” Come lei sono molti quelli che decidono di non piegarsi alle minacce e, sebbene le uccisioni abbiano un impatto più forte, sono solo la fine della catena di aggressioni fisiche e psicologiche che gli attivisti per l’ambiente subiscono o rischiano di subire: minacce di morte, arresti, violenze sessuali, rapimenti, denunce, pestaggi. È un fenomeno tanto brutale quanto silenzioso, perché queste persone colpiscono gli interessi delle élite economiche - che spadroneggiano soprattutto nei Paesi poveri dell’America Latina - e delle dirigenze politiche stesse, e come sappiamo, è quindi facile che il tutto venga insabbiato almeno fino a che le morti non raggiungeranno un numero tanto elevato da non poter essere più nascosto.

Il frequente coinvolgimento dei Governi in questi interessi economici - e il fatto che chi detiene il potere politico - è spesso coinvolto negli affari delle grandi imprese private - non gioca quindi a favore degli attivisti, anzi, li rende dei “criminali” a detta di coloro che avrebbero il compito di difenderli. Così come le situazioni di crisi economica sono un’occasione di lucro per le multinazionali - con il lasciapassare degli Stati più potenti -, allo stesso modo i disastri ambientali si trasformano anch’essi nel pretesto per attuare misure e legislazioni meno restrittive e permettere alle grandi companies un range più ampio d’intervento, che, molto spesso, si traduce in sfruttamento.

Il 40% degli assassinati sono indigeni, la categoria più debole perché formata da comunità di persone private delle loro terre e alle quali vengono imposti - soprattutto dalle multinazionali - progetti di sfruttamento dei loro ambienti. Spesso questi piani mettono le popolazioni in grave pericolo di vita, e l’unica arma a disposizione di chi vuole proteggere la propria terra è la protesta. Qualche giorno fa ad esempio, l’editrice del quotidiano El País Brasil, Carla Jiménez, ha pubblicato le rimostranze della popolazione autoctona dei Wajãpi - gruppo etnico che vive nella foresta amazzonica brasiliana da molto prima che venisse scoperta. Se il decreto di sfruttamento minerario di questi territori dovesse essere riproposto dal Governo brasiliano (il primo è stato revocato lo scorso agosto grazie alle proteste internazionali) per loro, oltre che per questo tratto di foresta, potrebbe essere la fine. “Gli uomini bianchi sono come i bambini, fanno ciò che sanno di non poter fare”, riflette una donna Wajãpi intervistata dai giornalisti del País.

Per quanto riguarda invece l’entità di Paesi interessati, è più ampia di quanto si potrebbe immaginare. In cima alla lista c’è il Brasile, che con i suoi 49 morti è il luogo in assoluto più pericoloso da questo punto di vista; seguono Colombia, Filippine, India, Honduras, Messico, Sud Africa, Myanmar, Peru, Tanzania, Pakistan e molti altri. L’Honduras in particolare, con 127 uccisioni dal 2017, è per numero di persone lo Stato più insicuro in cui essere un environment defender degli ultimi 10 anni. In Colombia, invece, le aree che prima erano sotto il controllo dei guerriglieri delle FARC sono adesso reclamate da paramilitari e compagnie estrattive, che attaccano le comunità di quelle zone.

Si è parlato molto di Berta Caceres - ambientalista honduregna vincitrice di molti premi tra cui il Global Environmental Prize nel 2015 - che dopo anni di minacce è stata assassinata nella sua abitazione la mattina del 3 marzo 2016 da alcuni uomini armati pur essendo sotto la difesa nazionale; ma ci sono molte persone di cui non si sa nulla, che ogni giorno subiscono atti di violenza perché difendono la loro terra e la loro vita. Global Witness, con la collaborazione del Guardian, ha deciso di impegnarsi per far conoscere queste storie, per creare la consapevolezza che non si tratta d’isolati incidenti, ma di una repressione sistematica, con obiettivi politici ed economici. 

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