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Raphael Lemkin (1900 - 1959)

il grande giurista che ha formulato la definizione di genocidio e l'ha imposta al mondo

Nato nel 1900 nella Polonia orientale da genitori ebrei, ha dedicato la vita all’obiettivo di sanzionare i genocidi e impedire che si ripetano. Da bambino, in Polonia, è colpito dai racconti della madre su storie di eroismo, di sofferenza e di lotta, e subisce direttamente la discriminazione dell’origine ebraica. Sviluppa presto la volontà di proteggere gli innocenti e i deboli e il desiderio di un mondo migliore, che - dirà più tardi - “ha innescato una reazione a catena” nella sua mente.

Durante l’adolescenza Lemkin viene a conoscenza dello stermino del popolo armeno da parte del governo turco. Un milione di persone, compresi i bambini, sono eliminati nel corso di massacri e marce forzate. Ancora oggi la Turchia nega che si sia trattato di un genocidio e pochissimi colpevoli sono stati portati davanti alla giustizia. “Sono rimasto scioccato”, scrive Lemkin. “Perché uccidere un milione di persone è meno grave di ucciderne una?”. Nella sua coscienza matura l’idea di creare un sistema sanzionatorio per questi tipi di reati, tutti ancora indefiniti e non codificati.

Nell’ottobre del 1933, quanto Hitler sale al potere in Germania, Lemkin è un giovane ma già influente avvocato di Varsavia, con brillanti relazioni pubbliche e un grande talento in Diritto internazionale. Elabora la proposta di rendere crimine internazionale la distruzione di gruppi nazionali, sociali e religiosi e la invia a un’importante conferenza internazionale, dove tuttavia trova scarso sostegno, nonostante la gravità di ciò che sta accadendo in Germania contro gli ebrei, oggetto di una sistematica persecuzione orchestrata dagli stessi organi statali. 
Quando, nel 1939, Hitler invade la Polonia, Lemkin sente che i suoi timori e sospetti più atroci stanno per prendere corpo. “Molta gente pensava che Hitler volesse solo mostrare i muscoli, ma io ero convinto che avrebbe portato a termine il suo programma” - scriverà più tardi.

Mentre 40 membri della sua famiglia rimangono nella Polonia orientale è saranno sterminati dai nazisti, il giovane giurista riesce a raggiungere gli Stati Uniti, dove, tuttavia, è costretto a scontrarsi con l’indifferenza dei media e dei politici. Tenterà tutte le strade per uscire dal silenzio sul delirante disegno hitleriano della “soluzione finale”, compreso l’invio di una lettera personale a Franklin Delano Roosevelt, che gli risponderà invitandolo ad avere pazienza. Il governo americano respinge anche le richieste di alcuni gruppi ebrei di bombardare i lager. Lemkin tenta allora la strada della denuncia pubblica: scrive un libro in cui riporta nel dettaglio ciò che i nazisti stanno facendo e usa per la prima volta il termine genocidio, coniato dal greco genos per “razza” e dal latino cide per uccisione, convinto dell’efficacia della comunicazione diretta e puntuale anche nelle definizioni; invece anche questa volta non ci sono reazioni e la Shoah viene realizzata senza ostacoli.

Finita la guerra, anche il processo di Norimberga si rivela una grande delusione, sottoposto alla logica dell’equilibrio tra le varie potenze vincitrici e senza attenzione alla tematica del genocidio come crimine contro l’Umanità da assumere quale filo conduttore del dibattimento. In questo modo non vengono poste le basi per un’assunzione internazionale di responsabilità, unica garanzia perché l’orrore non si possa ripetere.

Lemkin tuttavia non demorde e dedica tutti i suoi sforzi all’approvazione di una convenzione contro il reato internazionale di genocidio. Redige e corregge, ripensa e lima senza sosta il testo, contatta i delegati cercando di coinvolgerli personalmente, scrive ai leader del mondo nelle loro lingue (ne parla correntemente più di dieci) per ottenerne l’adesione. 
Il 9 dicembre 1948 la Convenzione passa unanimemente all’Onu. Il grande, estenuante lavoro di Lemkin ottiene il risultato più alto.

Sfinito dalla tensione e dall’enorme impegno profuso, il grande giurista si ammala gravemente e, nonostante due nomination al Nobel per la pace e altri importanti riconoscimenti nazionali e internazionali, muore in solitudine dieci anni dopo. Soltanto sette persone saranno presenti al suo funerale.


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