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MOAS, una Ong per salvare i migranti in mare

intervista a Regina Catrambone

MOAS (Migrant Offshore Aid Station) è una postazione di aiuto in mare ai migranti ed è la prima missione di soccorso interamente finanziata da privati. Questa Ong, registrata a Malta, è nata grazie a Regina Catrambone e a suo marito Christopher, a seguito del verificarsi di diverse tragedie nel Mar Mediterraneo.
Il capitale iniziale è stato messo a disposizione dai coniugi, e ha permesso di coprire l’acquisto della nave Phoenix, l’equipaggiamento e le spese operative per la prima stagione. Tuttavia i costi sono alti, e per rendere il progetto sostenibile MOAS accetta donazioni.
Con Regina Catrambone abbiamo parlato di questa attività, delle risposte europee ai flussi migratori e del valore dei “Giusti del Mediterraneo”.

Come nasce l’idea di MOAS?

Mio marito e io ci trovavamo in vacanza, stavamo lasciando Lampedusa ed eravamo diretti in Tunisia. In questo tratto di mare abbiamo visto galleggiare tra le onde un indumento che ha attirato la nostra attenzione. Ho chiesto al capitano della nave cosa fosse, e la sua risposta è stata molto forte: “Sicuramente questa è la giacca di qualcuno che non ce l’ha fatta”. Le sue parole ci hanno fatto realizzare che il tratto che noi stavamo percorrendo - in senso opposto - vivendolo come una vacanza, quello che per noi era un paradiso, per tante altre persone era un inferno, e per molti era addirittura una tomba.
Io sono calabrese, mio marito è di New Orleans e vive in Europa da dieci anni. Entrambi conoscevamo bene la situazione dei migranti, ma in quell’occasione abbiamo capito che non potevamo rimanere indifferenti. Poi c’è stata la tragedia del 3 ottobre 2013 a Lampedusa, in cui in un solo giorno hanno perso la vita più di 300 persone a poche bracciate dalla riva. I migranti sono morti a un passo dalla salvezza, non sono nemmeno riusciti a nuotare perché dopo ore passate nella stessa posizione, stretti e stipati all’inverosimile sui barconi, avevano gli arti intorpiditi.
Nasce così l’idea di investire forze e capitali in MOAS, per il quale al momento abbiamo speso oltre 8 milioni di dollari tra costi fissi - l’acquisto della nave, l’ufficio, il personale, i rimessaggi - e variabili. Nel 2014 ci occupavamo sia di ricerca e soccorso che di attività post soccorso; sulla nave avevamo un paramedico, pagato da noi, e un dottore volontario. Quest’anno siamo stati contattati da Medici Senza Frontiere Amsterdam: saranno a bordo con noi per 6 mesi, hanno fatto una donazione al MOAS e si stanno occupando dei viveri e delle coperte per i migranti. Per noi è molto importante anche l’opera di volontariato. Fondamentale, ad esempio, è l’operato dei nostri sostenitori qui a Malta, che ci fanno donazioni di scarpe, vestiti e altri beni per coloro che vengono soccorsi.

Quali sono le vostre attività in mare?

In mare siamo sia attivi che reattivi. Attivi, poiché abbiamo due droni Schiebel camcopter, molto potenti, che lanciamo - informando il Centro marittimo di coordinamento di Roma - per poi andare alla ricerca di imbarcazioni e situazioni di stress. Reattivi in quanto, come in questi giorni, andiamo a controllare aree che ci vengono segnalate dal Centro di coordinamento - che si occupa anche dell’attività di Frontex.
La nostra nave, Phoenix, è un vascello di 40 metri, equipaggiato con due gommoni a scafo rigido col doppio motore e più di 20 ciambelloni di plastica dura per il soccorso ai migranti; a bordo abbiamo dottori, infermieri, cibo, biscotti, pannolini, biberon, latte in polvere e vestiti.
Ogni missione viene coordinata con il Centro, che ci indica la nave o il porto in cui far sbarcare coloro che soccorriamo.

Come vi coordinate con le altre forze che operano in mare, come la Guardia Costiera o la Marina Militare?

Il Centro marittimo di coordinamento di Roma è come un grande cervello che coordina i vari “neuroni” e decide quello che bisogna fare. Noi siamo in mare e facciamo il nostro lavoro, così come la Guardia Costiera e la Marina Militare. Ci è capitato di cooperare, ma non c’è niente di scritto: quando si è in mare si collabora, soprattutto se ci sono persone che stanno male. L’unione fa la forza…
Quando abbiamo pensato di creare MOAS, volevamo offrire a chi già operava in questo campo un supporto non solo fisico, ma anche “mediatico”. Avere, infatti, persone che decidono di impegnarsi in mare investendo le proprie risorse - come accade in America, dove la filantropia è molto diffusa - permette di lanciare un forte messaggio e ricordare che dove finisce il pubblico è importante l’impegno dei privati. Così come sta avvenendo oggi a Milano e Roma, dove le persone scendono in strada per offrire il loro aiuto ai migranti.

Oggi in Europa si discute di distribuzione dei migranti nei vari Paesi, ma siamo di fronte anche a episodi come quello di Ventimiglia, dove la Francia ha di fatto chiuso le frontiere ai profughi che cercavano di attraversare il confine. Quali risposte servono, secondo lei, da parte dell’Europa?

L’Europa deve fare l’Europa, deve trovare una soluzione comune. E deve ricordarsi che l’Italia non sta solamente accogliendo queste persone, ma le sta anche aiutando in mare. Quando noi li aiutavamo nel Mediterraneo, loro dov’erano?
Oggi c’è una realtà fatta di persone che ancora muoiono in mare, che non riescono a raggiungere le loro famiglie a causa di Dublino II, che aspettano alla frontiera come in un limbo. E tutto questo perché? Perché l’Europa non riesce a essere unita nel prendere una decisione. Se i migranti sono in Italia, e l’Italia non può più contenerli, gli altri Stati devono dare il loro aiuto.

Qual è secondo lei l’importanza di ricordare le storie dei “Giusti del Mediterraneo”?

Io credo che la storia non vada dimenticata, ma trovo fondamentale ricordare l’azione di persone ancora vive, perché nonostante si possa sempre imparare dal passato, è necessario anche sostenere chi in questo momento sta cercando di fare qualcosa. Credo quindi che l’albero dedicato alle donne e agli uomini della Guardia Costiera al Giardino dei Giusti di Milano sia un segnale molto importante.
Queste persone, come noi d’altronde, spendono tante giornate per la ricerca e il soccorso, e lo fanno non solo in maniera professionale, ma anche trasmettendo le loro emozioni alle persone che aiutano.

Martina Landi, Responsabile del coordinamento Gariwo

16 giugno 2015

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