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Dag Hammarskjöld: uomo politico e spiritulità

di Guido Dotti

Un mistico al Palazzo di Vetro

“La spiegazione di come l’uomo debba vivere una vita di servizio attivo verso la società in completa armonia con se stesso come un membro attivo della comunità dello spirito, l’ho trovata negli scritti di quei grandi mistici medievali per i quali la sottomissione è stata la via della realizzazione di sé e che hanno trovato nell’onestà della mente e nell’interiorità la forza di dire a ogni richiesta che i bisogni del loro prossimo mettevano loro davanti, e di dire a qualsiasi destino la vita avesse in serbo per loro quando hanno risposto alla chiamata del dovere così come l’avevano intesa”(1).

Nella primavera del 1953, pochi avevano prestato attenzione a queste affermazioni, stese per un programma radiofonico da quel quarantottenne vice-ministro degli Esteri svedese appena nominato all’autorevole ma scomodo incarico di Segretario generale dell’ONU. Pochi, del resto, allora conoscevano l’uomo che si celava dietro le indubbie qualità diplomatiche e la straordinaria capacità lavorativa. Pochi, al di là della stretta cerchia dei collaboratori, ne seppero misurare lo spessore spirituale anche durante gli otto anni del suo doppio mandato, conclusisi tragicamente in un incidente aereo nel corso di una missione per risolvere la crisi congolese.

In verità, qualche indizio per capire che la solitudine di quell’uomo era profondamente abitata non era mancato: non era forse stato lui a volere con convinzione una “stanza di raccoglimento” all’ingresso del palazzo dell’ONU per la quale si era occupato personalmente fin nei minimi dettagli del sobrio arredo? “Tutti – aveva scritto lui stesso nel testo di presentazione per i visitatori – abbiamo in noi un centro di quiete avvolto dal silenzio. Questo palazzo, consacrato al lavoro e al dibattito a servizio della pace, deve avere una stanza dedicata al silenzio nel senso esteriore e alla quiete nel senso interiore. Si è voluto creare in questa piccola stanza un luogo dove le porte potessero essere aperte alle terre sconfinate del pensiero e della preghiera. Persone di diverse fedi si incontreranno qui e, perciò, nessuno dei simboli ai quali siamo abituati nella nostra meditazione poteva essere usato… Un antico detto ci ricorda che il senso di un vaso non sta nella creta ma nel vuoto. Così è per questa stanza: spetta a chi viene qui riempire il vuoto con ciò che trova al centro della propria quiete”(2).

Del resto era stato Hammarskjöld stesso a rifuggire ogni manifestazione esteriore della propria fede in modo da non ostacolare il suo lavoro nei confronti di interlocutori dalle convinzioni più diverse. “Nel mio nuovo incarico ufficiale – aveva detto sbarcando all’aeroporto di New York due giorni dopo l’inattesa nomina a Segretario generale – l’uomo privato deve scomparire e il funzionario civile internazionale deve prendere il suo posto”(3). Così venne ben presto a crearsi l’immagine di una personalità affascinante, di una cristallina rettitudine morale, dotata di grandi capacità comunicative, eppure riservata, solitaria, aliena dall’ostentazione di qualsiasi appartenenza religiosa: l’uomo che aveva tra gli ascendenti materni pastori luterani e che da giovane era rimasto affascinato dal vescovo Nathan Söderblom, uno dei pionieri dell’ecumenismo e abituale frequentatore di casa Hammarskjöld, lasciava ora che emergessero solo i tratti del discendente di un’antica famiglia di servitori dello Stato – solo nelle due generazioni precedenti vi furono ben sei ministri del governo svedese – pronto a lasciare in ombra le proprie convinzioni di fede per facilitare la riuscita del bene comune.

Immagine pubblica e diario intimo

Questa immagine pubblica, vera ma parziale, dell’uomo Hammarskjöld venne messa in crisi, dopo la sua morte prematura, dalla scoperta e conseguente pubblicazione del suo diario – Vägmärken, “Tracce di cammino”(4) – che destò non poco scalpore. Molti, anche tra quanti lo avevano conosciuto da vicino, furono sorpresi dalla fede profonda che emergeva da quelle pagine, alcuni fraintesero le sue riflessioni intime considerandole alla stregua di allucinazioni mistiche di un mitomane religioso: un grande quotidiano svedese arrivò ad osservare, con dubbio buon gusto, come fosse stato “un bene che egli morisse prima che il suo sogno di essere Cristo lo facesse uscire completamente dalla realtà”. Non è mai del resto facile, specialmente per chi non ha dimestichezza con il vissuto della fede cristiana, discernere la differenza tra l’interiorizzazione delle esigenze radicali della sequela evangelica e un’identificazione patologica con Gesù stesso. Essere discepoli di Cristo, infatti, comporta un camminare dietro a lui imitandone la condotta, come ricorda la Prima Lettera di Pietro: “Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme” (1Pt 2,21). E l’aureo libretto dell’Imitazione di Cristo non ha forse plasmato intere generazioni di credenti dalla fine del medioevo ai nostri giorni? Non a caso è questo il testo più citato nel diario di Dag Hammarskjöld, che ne portava sempre con sé una copia – autentico livre de chevet – contenente una cartolina con il giuramento prestato come Segretario generale dell’ONU: ancora una volta, mistica medievale e “vita di servizio attivo verso la società” simbolicamente riunite in un unico testo.

La sottomissione come via alla realizzazione di sé

Il cammino verso la “sottomissione”, la libera accettazione del manifestarsi della volontà di Dio nella propria vita, non fu certo agevole per Hammarskjöld. La solitudine, in particolare, fu il banco di prova più arduo: “l’angoscia della solitudine porta con sé raffiche di vento dal cuore della tempesta mortale”, scriveva nel 1950, anche se poco dopo aggiungeva: “Solo. La solitudine però può essere comunione”(pp. 68-69). Ed è in questa conciliazione di opposti che Hammarskjöld cerca a tentoni una via di uscita che sembra faticosamente delinearsi due anni dopo: “Donami qualcosa per cui morire! Non è questo a rendere la solitudine un tormento: che non ci sia nessuno con cui condividere il fardello; ma quest’altro: che io abbia solo il mio fardello da portare… Prega perché la tua solitudine sia di sprone a trovare qualcosa per cui vivere, abbastanza grande per cui morire”. In questa ricerca, la sottomissione alla solitudine è il giogo da assumere per giungere all’impossibile di una vita “sensata”, al dono a caro prezzo della realizzazione di sé: “Chiedo l’assurdo: che la vita abbia un senso. Mi batto per l’impossibile: che la mia vita ottenga un senso. Non oso credere, non saprei come poter credere: di non essere solo”(pp. 114-115).

Onestà della mente e interiorità come forza per “dire di sì”

Strenue lotta nella solitudine, per strappare alla solitudine un senso. E in questa lotta due sole armi a disposizione: la rettitudine nell’agire e il discendere in se stessi. Questo era chiaro già nel 1950, l’anno più denso di riflessioni, l’anno in cui si fa più chiaro che “il viaggio più lungo è il viaggio interiore” (p. 87): “Fame di comunione, fame di rettitudine; comunione fondata sulla rettitudine, e rettitudine raggiunta attraverso la comunione… Questa fame si sazia solo plasmando la vita in modo che la mia individualità sia un ponte verso gli altri, una pietra nell’edificio della rettitudine… Non seguire gli altri per acquistare la comunione, non erigere le convenzioni a legge invece di vivere in rettitudine. Libero e responsabile” (p. 83).

Solo da questa onestà verso gli altri e con se stessi può sprigionarsi dapprima lentamente poi incontenibile la forza per “dire di sì” ai bisogni del prossimo e a qualunque destino. Se si coglie il lungo lavoro di Hammarskjöld in questa duplice direzione, si riesce a leggere la “svolta” avvenuta nelle settimane a cavallo tra il 1952 e il 1953 non come un miracoloso capovolgimento delle sorti né, tantomeno, come conseguenza della nomina a Segretario generale dell’ONU (che, ricordiamolo, avverrà a sorpresa e solo a inizio aprile del 1953). No, il cambiamento è per Hammarskjöld il frutto maturo di un prolungato “commercio con me stesso e con Dio”. Allora passato e futuro appartengono alla medesima interiorità: “Al passato: grazie / al futuro: sì!” (p. 116).

La risposta alla chiamata del dovere

Allora neanche l’essere catapultato sulla scena mondiale “a servizio della pace”, neanche le difficoltà che lì si incontreranno potranno più turbare la pace interiore. “Essere liberi – scriverà poco dopo la nomina – potersi alzare e lasciare tutto, senza voltarsi indietro. Dire di sì… Nessuno è umile se non nella fede… Nessuno è fiero se non nella fede… Umile e fiero nella fede: ecco cosa è vivere: in Dio io sono nulla, ma Dio è in me. Dire di sì alla vita è dire di sì anche a se stesso. Sì anche a quanto in me più si oppone a lasciarsi tramutare da tentazione in forza” (p. 119).

Una volta pronunciato interiormente questo , Hammarskjöld non tornerà più indietro: “Tu azzardi il tuo sì e percepisci un senso. Tu ripeti il tuo sì e tutto prende senso. Quando tutto ha un senso, come puoi vivere altro che un sì?”(p. 152), scriverà nel 1956. E cinque anni dopo, nella sua riflessione forse più famosa – quella datata Pentecoste 1961, solo pochi mesi prima di morire – annoterà: “Non so chi o che cosa pose la domanda – annota– Non so quando sia stata posta. Non ricordo cosa risposi. Ma una volta risposi sì a qualcuno – o a qualcosa. A quel momento risale la certezza che l’esistenza ha un senso e che perciò la mia vita, nella sottomissione, ha un fine. Da quel momento ho saputo cos’è ‘non volgersi indietro’, ‘non affannarsi per il domani’” (p. 237).

Gli anni del servizio di Hammarskjöld all’ONU stanno tutti al di là di questo fatidico . Sono anni in cui rettitudine e interiorità verranno tenacemente salvaguardate contro tutto e contro tutti, nella consapevolezza che “merita il potere solo chi ogni giorno lo rende giusto” (p. 94), nell’intima convinzione che “la tua posizione non ti dà mai il diritto di comandare: solo il dovere di vivere in modo tale da permettere agli altri di seguire il tuo ordine senza esserne umiliati” (p. 132), nell’esigente certezza che “devi essere severo verso te stesso per avere il diritto di essere indulgente verso gli altri” (p.139). Possiamo così capire come quegli anni siano anche una stagione in cui questa “sottomissione” si fa balsamo per ogni ferita: “a Dio: sì al destino e sì a te stesso. Quando questo è realtà, l’anima può essere ferita, ma ha la forza di guarire” (p.190).

L’amore, forza che colma chi vive nell’oblio di sé

È il balsamo di un amore più grande, un amore che colma l’animo umano quando questo si svuota, è un’inabitazione divina che farà usare ad Hammarskjöld parole simili a quelle di san Paolo ai Galati, parole così familiari alla mistica cristiana: “Non io, ma Dio in me” (p. 117; cf. Gal 2,20). Allora non ci sorprende che a Léopoldville, prima di salire sull’aereo per quello che sarebbe stato il suo ultimo volo, salutò l’amico e collega Sture Linner ricordandogli proprio quei mistici medievali citati nel suo Credo radiofonico di otto anni prima: “Per loro l’amore era un sovrappiù di forza di cui si sentivano interamente colmati quando cominciavano a vivere nell’oblio di sé”. Furono le ultime parole di Hammarskjöld? È probabile. Di certo appartenevano alle sue parole ultime.


NOTE

  • Dag Hammarskjöld nasce a Jönköping in Svezia il 29 luglio 1905, ultimo di quattro figli maschi di Hjalmar Hammarskjöld e Agnes Almqvist. Trascorre gli anni della propria infanzia e adolescenza seguendo gli spostamenti del padre, uomo politico svedese: dapprima in Danimarca, poi a Uppsala, poi a Stoccolma – nei tre anni in cui il padre è Primo Ministro – poi ancora a Uppsala. Compiuti gli studi universitari, nel 1936 entra alle dipendenze del Ministero delle Finanze dove ricopre diversi incarichi, soggiornando anche per tre anni a Parigi. Nel 1941 diventa presidente della Banca Nazionale di Svezia, incarico che terrà fino al 1948, per entrare poi al Ministero degli Esteri: dapprima come segretario e successivamente (1951) come vice-ministro degli Esteri. Il 7 aprile 1953 viene eletto a succedere al norvegese Trygve Lie nella carica di Segretario generale dell’ONU, carica nella quale viene riconfermato nel 1958 allo scadere del mandato. Muore nella notte tra il 17 e il 18 settembre 1961 in un incidente aereo – le cui cause non saranno mai del tutto chiarite – a Ndola (nell’attuale Zambia). In quell’anno gli verrà attribuito il Premio Nobel per la Pace alla memoria.
  • (1) “Old Creeds in a New World”, in Dag Hammarskjöld: Servant of Peace. A Selection of His Speeches and Statements, a cura di Wilder Foote, Harper & Row, New York and Evanston 1962, pp. 23-24; tr. it. “Fede antica in un mondo nuovo” in Tracce di cammino, a cura di Guido Dotti, Qiqajon, Bose 20052, pp. 247-249.
  • (2) Cf. Tracce di cammino, pp. 251-253.
  • (3) “The International Public Servant”, in Dag Hammarskjöld: Servant of Peace, p. 27.
  • (4) Dag Hammarskjöld, Vägmärken, Albert Bonniers Förlag, Stockholm 1963. La prima traduzione italiana, a cura di L. Akerstein e G.A. De Toni, uscì presso Rizzoli con il titolo Linea della vita, Milano 1966. La seconda edizione italiana esce nel 1992 presso Qiqajon e viene ulteriormente riveduta nel 2005: da quest’ultima, citata alla n. 1, riprendiamo le citazioni per questo lavoro, apparso originariamente in Servitium 155 (2004), pp. 89-95.

Testo tratto dall'introduzione "Un cristiano al servizio della polis" all'edizione 2005 di "Tracce di cammino" (Qiqajon, Comunità di Bose) e gentilmente concesso da Giudo Dotti. 

    Guido Dotti, Monastero di Bose, curatore per le Edizioni Qiqajon di Tracce di Cammino di Dag Hammarskjold

    Analisi di

    26 gennaio 2021

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