Infermiera, pacifista, attivista per i diritti umani e missionaria laica nel Sudafrica dilaniato dalle guerre anglo-boere all’inizio del XX secolo, Emily Hobhouse fu la prima a denunciare le brutali condizioni di vita di donne e bambini rinchiusi nei campi d’internamento inglesi, ai quali alcuni decenni dopo si sarebbero ispirati anche i nazisti del Terzo Reich.
Nata nel 1860 in Cornovaglia, figlia di un pastore anglicano, Hobhouse aveva iniziato a svolgere attività assistenziali negli Stati Uniti, portando aiuti ai minatori emigrati dal suo Paese. Tornata in Inghilterra si era impegnata contro lo sfruttamento dell’infanzia, le conseguenze della sottoalimentazione e del sovraffollamento sulla vita e la salute dei bambini.
Quando, alla fine dell'Ottocento, scoppiò la seconda guerra contro i coloni sudafricani di origine olandese, Emily Hobhouse non si limitò a organizzare le proteste e a schierarsi apertamente contro il potere imperiale britannico, ma iniziò a raccogliere fondi per aiutare le vittime. Mentre si susseguivano le notizie delle fattorie e dei mulini distrutti per cancellare l’economia agricola del Sudafrica, Hobhouse decise di fondare il South African Women and Children Distress Found, con l’obiettivo di “nutrire, vestire, offrire riparo e soccorso a donne e bambini, boeri, britannici o di altre nazionalità ridotti in miseria o privati della casa a causa della distruzione delle loro proprietà, della deportazione o di altri mali provocati dalle operazioni militari”.
Ma non appena sentì parlare dell’esistenza dei campi di concentramento inglesi a Port Elisabeth e in altre località sudafricane, si imbarcò alla volta di Città del Capo, dove si scontrò con una realtà assai peggiore del previsto. Iniziò a indagare e scoprì che i campi attivi erano già una cinquantina, da Johannesburg a Springfontein, da Norvalspont a Bloemfontein, dov’erano imprigionate migliaia di persone, in gran parte donne e bambini. In molti di questi campi riuscì anche a entrare. Era la prima volta che un civile visitava quei luoghi di tortura e di morte, dove i nativi morivano di fame e di stenti.
Rimase in Sudafrica per quattro mesi, durante i quali ebbe modo di documentare la spaventosa realtà dei campi, le terribili condizioni igieniche nelle quali versavano gli internati, i corpi abbandonati sotto il sole cocente, decomposti e gettati in fosse comuni. Raccolse gli esiti spaventosi delle sue indagini in un dettagliato rapporto che iniziò a far circolare al suo ritorno in Inghilterra, nel tentativo di sensibilizzare l’opinione pubblica e fare pressione sul Parlamento inglese.
“All’interno di piccole tende dall’odore nauseabondo, prive di letti e materassi, vivono fino a dodici persone che quasi non possono muoversi, prive di sapone e con un approvvigionamento idrico totalmente insufficiente”, si leggeva nel suo Rapporto sui campi di donne e bambini nelle colonie del Capo e del fiume Orange. “Per potersi scaldare, donne e bambini devono andare a raccogliere gli arbusti nelle colline circostanti. A causa della fame, delle privazioni e del diffondersi delle più gravi malattie, nei campi muoiono già circa cinquanta bambini al giorno, e in diciotto mesi sono state spazzate via oltre 26000 vite umane, circa 24000 delle quali erano giovani di età inferiore ai sedici anni”.
Emily Hobhouse aveva raccolto prove schiaccianti, che non lasciavano alcuno spazio alle interpretazioni, ma i suoi sforzi si rivelarono inutili. Londra scaricò infatti tutte le responsabilità sui boeri e fece di tutto per impedirle di divulgare informazioni imbarazzanti per il governo. Fu denigrata e definita “una minaccia per l'Impero britannico” ma lei non si perse d'animo, e tenne decine di conferenze in giro per l’Inghilterra, sfidando anche una feroce campagna di stampa che contestava gli esiti delle sue ricerche definendola una ribelle, una bugiarda, una nemica del suo popolo. Il Times scrisse che i campi sudafricani erano stati creati in realtà per motivi umanitari, allo scopo di proteggere la popolazione, e che le condizioni di vita al loro interno non erano poi così terribili. Per giustificare le cause della mortalità infantile, si spiegò che erano dovute all’incapacità, alla trascuratezza e alla scarsa igiene delle donne boere. Ma mentre a Londra infuriava il dibattito, in Sud Africa la mortalità tra i nativi cresceva in modo esponenziale.
Emily Hobhouse recapitò personalmente una copia del suo rapporto sul Sudafrica a ciascun membro del parlamento ma non riuscì a suscitare alcuna indignazione. I suoi comizi, le sue conferenze e le sue denunce, spesso osteggiate e ostacolate da elementi provocatori, non ebbero l’effetto sperato sull'opinione pubblica. Il governo inglese decise di vendicarsi di quella “donna maledetta” che stava lottando, quasi da sola, per denunciare gli orrori compiuti in Sudafrica in nome della Corona e dell'Impero britannico. Arrivò persino a vietarle di tornare in Sudafrica in veste ufficiale. Lei però non prese in considerazione quel divieto e alla fine del 1901, dopo aver scritto l’ennesima lettera con le cifre aggiornate sulla mortalità nei campi, si imbarcò in un viaggio estenuante che sarebbe durato settimane. Ma al suo arrivo in Sudafrica fu arrestata e riportata con la forza in Inghilterra. Ostinata, sempre più decisa a non abbandonare una causa che era ormai diventata la sua ragione di vita, al ritorno in patria dette alle stampe un libro dal titolo The Brunt of the War and Where it Fell, una denuncia rigorosa e drammaticamente profetica sulle brutalità commesse dall'esercito britannico durante le guerre boere. Nell’introduzione al volume scrisse che i conflitti del futuro avrebbero fatto vittime sempre più numerose tra la popolazione civile. E si domandò se l'odioso sistema dei campi di concentramento – inaugurato proprio dall'Inghilterra in Sudafrica – non avrebbe costituito un tragico precedente per il futuro.
Nel 1902 un trattato fece entrare le repubbliche boere del Transvaal e dello Stato Libero dell'Orange all’interno dell'Impero Britannico e pose fine alle guerre boere ma non alle sofferenze della popolazione sudafricana, che continuò a morire di fame e di stenti a ritmi impressionanti. Recenti ricerche compiute da studiosi britannici indipendenti hanno calcolato che almeno 45mila persone morirono in quei campi di concentramento.
Emily Hobhouse riuscì a far ritorno in Sudafrica soltanto anni dopo, per partecipare alla ricostruzione del paese e al lungo processo di riconciliazione. Riuscì a migliorare le condizioni di vita nei campi, facendo arrivare convogli ferroviari e camion carichi di viveri e beni di prima necessità. Inviò anche i macchinari per insegnare l’arte della filatura e della tessitura alle donne boere sopravvissute alla deportazione. Nel Transvaal e nello Stato Libero d’Orange avviò oltre venti scuole per cercare di dare un futuro alle nuove generazioni. È qui che conobbe Gandhi, col quale strinse una collaborazione che la portò, poi, a prendere a cuore anche la causa dell’indipendenza dell’India. Morì a Londra nel 1926 all'età di 66 anni. La sua morte passò quasi inosservata in Inghilterra ma fu un evento in Sudafrica, dov’è tuttora considerata un’eroina e un simbolo nazionale.
Riccardo Michelucci, giornalista