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Habiba Al-Hinai

attivista simbolo del femminismo omanita, si batte per i diritti delle donne e per promuovere lo sport femminile nel Paese

Ex giocatrice di pallavolo, prima donna a battersi per il diritto allo sport femminile in Oman, ex vicepresidente dell’associazione femminile di pallavolo ed ex tedofora olimpica, Habiba Al-Hinai è una nota attivista per i diritti delle donne che ha pagato un prezzo molto alto per le sue scelte personali e politiche. E lo ha ricordato all’incontro Global Summit On Gender Equality In Nationality Laws, organizzato dal Global Campaign for Equal Nationality Rights il 13 giugno del 2023, quando ha detto, commossa: "Nel 1996 ho preso una decisione difficile che ha cambiato la mia vita". E cioè ha deciso di sposare un cittadino straniero, da cui ha avuto un figlio straniero, andando contro tutte le convenzioni e le leggi di una teocrazia patriarcale. Una scelta che ha pagato cara, come ha pagato caro anche il suo attivismo per i diritti umani che l’ha fatta diventare un esempio per le nuove generazioni in Oman.

Nato prematuro in un ospedale pubblico del sultanato, Hafeed Abu Shanaq ha affrontato la prima discriminazione nel 1998, quando, dopo due settimane di cure, i medici hanno detto alla madre di pagare il conto perché dal suo ventre era uscito uno straniero. Scioccata, da quel momento la strada di Habiba Al-Hinai è stata tutta in direzione contraria fino al giorno in cui ha preso la via dell’esilio. Non ha potuto ottenere un permesso di soggiorno per suo figlio, non ha potuto nemmeno registrare il suo nome né, soprattutto, trasmettergli la sua nazionalità. "Ho pensato che si dovesse conoscere il sacrificio causato da questa ingiusta legge per cambiarla e ho iniziato a parlarne pubblicamente. Nel 2007 ho intervistato più di 300 donne e ho capito quanto fossero numerose le madri che avevano subito la stessa sofferenza", ha raccontato al panel di Ginevra, alla partecipazione di Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati. "Per spezzarmi hanno usato la mia famiglia, la pressione religiosa, la denigrazione pubblica. Così, quando mio figlio ha compiuto 18 anni, ho pensato: se non può avere una vita normale, se non può andare all’università, se devo assumerlo come collaboratore domestico o come autista per fargli ottenere un permesso di soggiorno, allora perché dovrei chiamare l’Oman casa mia?".

Dopo che suo figlio ha compiuto 18 anni e per il sultanato è diventato un "clandestino", Habiba Al-Hinai ha deciso di andare in esilio in Germania, prima che le venisse tolto anche il diritto di viaggiare. A Berlino, dove oggi vive, dirige l’Omani Association for Human Rights (OAHR), lavora come formatrice nell'organizzazione femminista Terre des Femmes per promuovere i diritti delle donne e combatte le mutilazioni genitali in Europa e nel Medio Oriente. Prima di lasciare il suo Paese, diversi attivisti lanciarono una campagna su Twitter per chiedere che venisse concessa la cittadinanza a suo figlio, visto che in Oman i cittadini devono chiedere il permesso al ministero dell'Interno per sposare gli stranieri.

Nell’aprile del 2023, il sultano Haitham bin Tariq al-Said ha emesso un decreto che annulla la precedente legge del 1993, che assegnava al Ministero dell’Interno il compito e l’autorità per "approvare" le unioni con immigrati o persone prive della cittadinanza omanita, anche grazie alla battaglia di donne che, come lei, hanno alzato il velo su questo tabù. Il nome di Habiba Al-Hinai è spesso presente negli incontri internazionali dedicati ai diritti delle donne nel Medio Oriente. Sono passati 15 anni da quando nel 2008, con un velo bianco sul capo, fu una delle prime tre donne scelte per portare la torcia olimpica nella sua città nativa, Mascate, e col cuore più leggero di giocatrice di pallavolo, disse: “I have a dream”, perché immaginava il giorno in cui la bandiera dell'Oman potesse sventolare alle Olimpiadi anche per le donne omanite. Oggi la sua organizzazione Omani Association for Human Rights (OAHR) denuncia gli arresti dei dissidenti, di chi usa i social media per criticare la mancanza di libertà di espressione nel sultanato dell’Oman, i femminicidi e, soprattutto, le mutilazioni genitali femminili, vietate per legge ma radicate in modo capillare in tutto il Paese.

Il sultanato dell’Oman non è la Svizzera dei Paesi del Golfo come molti, erroneamente, credono. Sebbene si sia ritagliato un ruolo neutrale e di mediatore fra i Paesi del Golfo, gli attivisti vengono arrestati, le donne sono vittime di femminicidio e sono soggette a leggi patriarcali, anche se possono studiare e lavorare. Il fronte dei diritti umani è un tema dolente, criticato da tutte le grandi organizzazioni internazionali. Basta consultare il report di Human Rights Watch, dal quale emerge come in Oman si continuino a discriminare le donne rispetto a questioni come il matrimonio, il divorzio, l’eredità, la nazionalità o la responsabilità sui figli con le leggi sullo stato personale. Il codice penale, riformato nel 2018, punisce i rapporti sessuali consensuali al di fuori del matrimonio con condanne che vanno dai sei mesi fino a tre anni di reclusione. Il sultano Haitham bin Tariq vieta praticamente qualsiasi esercizio di libertà di espressione. Gli attivisti sono perseguitati e spesso incarcerati anche solo per le opinioni critiche espresse sui social media. Come ha spiegato bene Habiba Al-Hinai in una lunga intervista rilasciata all’organizzazione umanitaria internazionale Civicus dopo l’esilio: "Nel 2011, come in molti Paesi arabi oppressi, l'Oman ha assistito a manifestazioni per i diritti umani che hanno scatenato una reazione estremamente violenta da parte del Governo, che ha cercato di reprimere le proteste. Le richieste dei manifestanti non erano qualcosa di nuovo per le autorità, soprattutto a causa della diffusa corruzione, della disoccupazione, della povertà, della limitata educazione, della soppressione della libertà di stampa e di espressione, dell'ignoranza dei diritti delle donne e dei bambini, delle false elezioni e delle restrizioni e del monitoraggio delle associazioni della società civile". "Il Governo ha risposto con il pugno di ferro agli scioperi degli insegnanti, dei medici e dei lavoratori, imprigionando gli organizzatori delle manifestazioni insieme a molti difensori dei diritti umani, attivisti, scrittori, blogger e l'élite istruita. Molti dissidenti hanno dovuto fuggire in altri paesi come Regno Unito, Spagna e Australia e chiedere asilo politico, poiché è diventato impossibile per loro svolgere attività per i diritti umani all'interno dell’Oman", ha in seguito aggiunto.

Habiba Al-Hinai è molto impegnata sul fronte delle mutilazioni genitali femminili sin da quando, nel 2013, condusse un’indagine, scoprendo che il 78 per cento delle donne intervistate avevano subito mutilazioni genitali. Sul blog femminista di Equality now-a just world for women and girls, nel 2020 ha raccontato: "Pensavo che accadesse solo in una zona nel Sud del mio Paese, ma purtroppo ho scoperto che questa pratica è molto diffusa anche se nessuno ne parla. Quasi il 78% delle donne con cui ho parlato mi ha riferito di essere stata sottoposta alle mutilazioni genitali quando erano bambine. Non sanno come dovrebbe essere la forma della loro vagina, non hanno nessuno a cui chiedere informazioni e l'argomento è tabù". Quando Habiba Al-Hinai ha pubblicato l’esito del suo sondaggio, è stata attaccata da conservatori religiosi, che sostenevano che la circoncisione femminile fosse una forma di adorazione islamica. Le hanno anche detto che si trattava di una pratica salutare che previene il cancro, visto che riduce il desiderio sessuale, aiuta ad avere un’intimità migliore con il marito e rende più facile il parto. Nonostante le mutilazioni genitali femminili siano state vietate per legge dal 2019, la pratica in Oman è ancora molto diffusa in molte comunità e viene anche approvata da leader religiosi. "Come Community Trainer nel progetto CHAIN, voglio impegnarmi per cambiare tutte le leggi discriminatorie e le violazioni dei diritti delle donne e delle ragazze", ha scritto sul sito web dell’organizzazione femminista tedesca Terres des Femmes. "Bisogna esercitare pressioni sul governo omanita affinché adotti misure politiche per eliminare la pratica dannosa della MGF e intraprenda azioni per far rispettare le leggi e garantire la protezione delle ragazze".

Nel 2012 Habiba Al-Hinai è stata arrestata per avere espresso solidarietà allo sciopero di oltre 4.000 lavoratori in un campo petrolifero del deserto. E successivamente ha dovuto pagare una multa per evitare una condanna per "offesa al popolo omanita" e "disturbo dell'ordine generale stabilito dal governo". Ha dovuto firmare una dichiarazione scritta dal servizio di sicurezza, in cui affermava che non avrebbe continuato le sue attività per i diritti umani o, altrimenti, sarebbe stata mandata in prigione. Dopo essere stata imprigionata nel deserto con temperature che a volte potevano raggiungere i 50 gradi, con le mani legate e senza aria condizionata, è arrivata in Germania con la fobia degli spazi chiusi e ha dovuto rivolgersi a uno psichiatra. E, ancora oggi, è prigioniera di attacchi d’ansia ogni volta che deve salire su un aereo, si trova in un luogo affollato o in ascensore. "Se entro in ascensore mi viene un attacco di panico, mi sento oppressa e soffocata. Per molto tempo ho ignorato il disagio che stavo vivendo, ma è cresciuto come una palla di neve. Ho iniziato a limitare i miei movimenti. Non riesco più a stare a lungo sui vagoni della metropolitana; sono costretta ad uscire presto per non arrivare in ritardo ai miei impegni. Non chiudo più le porte dei bagni, sia a casa che in luoghi pubblici e spesso, se c’è mio figlio con me, deve stare fuori dal bagno per controllare la porta", ha raccontato durante un incontro. "È difficile per una donna come me ammettere di essere vulnerabile e accettare di esserlo. Quando parliamo del nostro corpo che subisce torture, spesso ci riferiamo a segni di lividi e cicatrici ma c'è un altro tipo di tortura che è intangibile: distrugge l'anima e la soffoca lentamente, proprio come una malattia maligna".

L’8 marzo del 2022, Habiba Al-Hinai ha partecipato a Bruxelles a un panel organizzato dall’organizzazione umanitaria European Centre for Democracy and Human Rights (ECDHR), impegnata nella promozione dei diritti umani e della democrazia in Medio Oriente e nel Nord Africa. Ha parlato del suo lavoro di advocacy internazionale per cambiare il regime spietato che tratta le donne omanite, per usare un eufemismo, come cittadine di serie B. Ha criticato la comunità internazionale per aver voltato le spalle alle richieste democratiche del popolo omanita del 2011, mettendo gli interessi nazionali al di sopra dei diritti e delle libertà dei cittadini del Golfo. La sua determinazione nel continuare a combattere per i diritti delle donne è un'ispirazione per le giovani generazioni. Grazie al suo lavoro di attivista per lo sport femminile, è riuscita a far riconoscere il diritto allo sport per le donne negli anni. Sono state formate squadre nazionali che, come quella di pallavolo, tennis e tennis da tavolo, hanno partecipato a giochi regionali e internazionali, vincendo anche diverse medaglie. Habiba Al-Hinai è stata, infatti, la prima donna a lottare per l’organizzazione ufficiale dello sport femminile in Oman, diventata realtà nel 1993. E ha creato una strada che ora le nuove generazioni stanno seguendo per emanciparsi dal potere vessatorio di una teocrazia patriarcale, con buona pace del suo brand “svizzero” di neutralità nei Paesi del Golfo e in Medio Oriente.

Cristina Giudici, giornalista

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