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I Giusti e la dimensione insacrificabile della vita

​le parole di Massimo Recalcati

Salvatore Natoli, Gabriele Nissim e Massimo Recalcati al Teatro Franco Parenti

Salvatore Natoli, Gabriele Nissim e Massimo Recalcati al Teatro Franco Parenti

Pubblichiamo di seguito la trascrizione dell’intervento di Massimo Recalcati, psicoanalista, alla presentazione del nuovo libro di Gabriele Nissim, “Il bene possibile” (Utet), lo scorso 21 maggio al Tetro Franco Parenti di Milano.

Vorrei iniziare sottolineando il valore, al plurale, dei Giusti. Il libro di Gabriele Nissim è una carrellata di volti, nomi, esperienze plurali. Potremmo dunque mettere in rapporto il carattere plurale dei Giusti con il carattere singolare o universale, per esempio, del padre: da una parte il singolare del padre, dall’altra il plurale dei Giusti. E potremmo aggiungere subito, per complessificare questa prima osservazione, da una parte la dimensione del comandamento del padre, e dall’altra la dimensione della testimonianza dei Giusti.

La mia idea, da qualche tempo a questa parte, è che il nostro tempo sia il tempo della evaporazione del padre. È una formula del mio maestro Jacques Lacan, ed è anche una delle cifre fondamentali della nostra epoca. Questo significa che il tempo di modelli ideali che orientano in modo infallibile, come bussole determinate, il comportamento degli individui e dei collettivi, è alle nostre spalle, si è esaurito. Quindi non abbiamo più davanti a noi la parola infallibile del padre, ma abbiamo un vuoto. L’esperienza sconcertante che caratterizza la nostra epoca sia sul piano della psicologia individuale, sia sul piano della psicologia collettiva, sia sul piano delle istituzioni, è che oggi noi facciamo esperienza di un vuoto.

Nanni Moretti l’aveva raffigurato in uno dei suoi ultimi film in modo plastico: il balcone di San Pietro non ospita più la parola decisa del padre/Papa che guida i suoi fedeli, ma quella di un padre che si mette a piangere, si rannicchia, che somiglia a un bambino spaventato. E allora - e in questo io trovo prezioso questo libro - nel tempo in cui il balcone di San Pietro è vuoto, in cui al posto del padre modello, del padre comandamento, del padre come fondamento della legge, c’è un esperienza di precarietà, di insecuritas, che cosa resta? Resta la testimonianza dei Giusti.
E la prima caratteristica dei Giusti, che si deduce in apertura del libro, è quella di non essere dei modelli. Che cosa definisce il Giusto? Non c’è un’essenza del Giusto, il Giusto è senza modello. Questo significa quindi che la sua testimonianza - cioè i suoi atti, come quello di salvare una vita - è una testimonianza priva di esemplarità. Quando uno vuol dare l’esempio, intenzionalmente, programmaticamente, come un educatore, diventa spesso un incubo. Accade anche ai genitori.
La testimonianza non è esemplare, non è ideale, Nissim dice non implica la perfezione, ne è un’alternativa, perché non c’è perfezione nel Giusto. Nonostante questo, il Giusto sa dare testimonianza.

Faccio una parentesi clinica per sottolineare che l’ideale di una vita perfetta, compiuta, di una società senza disorganizzazione, è un ideale perverso. I grandi sistemi totalitari hanno questa immagine della società, del collettivo, come di una macchina che funziona perfettamente. Perseguire la perfezione in politica significa produrre mostri; casomai si tratta di organizzare l’elemento dell’incertezza, della precarietà, ma non di raggiungere una compiutezza perfetta.

Il Giusto in fondo mostra all’incubo dell’esemplarità che la testimonianza è tale solo retroattivamente, cioè non si decide di essere un testimone, ci si trova ad esserlo, e dunque l’atto diventa testimonianza solo, per chi lo osserva, per esempio per le vite salvate dal gesto del Giusto.
Pensare di essere un Giusto è ingiusto, è la forma più contraddittoria del Giusto, è una delle manifestazioni della follia umana. Il Giusto non pensa di essere Giusto, lo diventa a partire dai suoi atti, dalla sua esistenza, non dalla sua essenza.

Mi colpisce anche il fatto che questa eccentricità rispetto a qualsiasi paradigma ideale mostra la sensibilità che i Giusti hanno nei confronti dei nomi propri, die volti, delle persone una per una. Se ci pensiamo, qual è la vera follia di ogni totalitarismo, di ogni fondamentalismo, di qualunque declinazione ideologica? È dimenticare i volti, i nomi, i corpi. Quando la politica si allontana da tutto questo diventa una politica infernale, totalitaria, che sacrifica il diritto del particolare in nome dell’universale. Il Giusto invece ragiona ribaltando il rapporto, mettendo in primo piano la dimensione insacrificabile della vita.

Il Giusto nel suo atto mostra che non c’è mai una ragione necessaria per sacrificare una vita, nemmeno per un sommo ideale, perché altrimenti entriamo in una contraddizione assoluta: l’ideale è infatti rendere la vita insacrificabile.

Non è un caso se nel Mein Kampf di Hitler un capitolo centrale si intitola Lo spirito del sacrificio. Hitler è un grande cantore di tale spirito, incarnato più di altri dall’ariano. L’ariano è disposto, nel nome della causa, dell’universale, della superiorità della razza, a sacrificare il suo misero io di fronte al destino della Grande Germania. E questo è l’aspetto contro il quale il Giusto si muove: non c’è mai una ragione giusta per sacrificare una vita.

In questo senso la “politica” del Giusto si ispira a una definizione che Lacan dà dell’amore che mi ha sempre molto convinto: non esiste amore per la vita. Io direi anche che non esiste amore per l’altro in generale, l’amore è sempre amore per il nome, anzi per il nome proprio.

Questo significa evitare quel binomio folle, che ispira per esempio il Mein Kampf così come ogni politica dell’odio - di cui il nostro Paese ormai è ahimè travolto -, cioè l’opposizione tra la superiorità del puro e l’inferiorità dell’impuro (tra casta e anticasta, se dovessimo fare una declinazione politica elementare). Allora il giardiniere totalitario, ci dice nel suo libro Nissim, elimina le erbe infestanti per valorizzare nel giardino solo la parte pura dei fiori che hanno diritto di esistere.
Noi, chiaramente in un’altra forma, siamo di fronte a una vento simile che soffia dagli Stati Uniti alla nostra Europa. La tentazione del muro, della separazione manichea tra puro e impuro: questa è la tentazione del male, perché quando uno si muove nel mondo pensando di essere un puro, non c’è più limite al male che può compiere.

Massimo Recalcati, psicoanalista

Analisi di

25 maggio 2018

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