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Lina Ben Mhenni (1983 - 2020)

l'attivista e blogger tunisina che ha documentato le rivolte contro Ben Ali

Era una donna minuta, ma la piccola statura non traeva in inganno nessuno. Bastava guardarla un momento negli occhi, Lina Ben Mhenni, per capire che energia avesse dentro. Nel suo sguardo c’era qualcosa di spietato e allo stesso tempo comprensivo. C’era la forza del voler sognare un mondo migliore per i giovani, c’era il coraggio di non mollare mai, nemmeno di fronte ai rovesci della vita. Non alzava la voce, Lina, ma aveva sempre le parole più severe, impietose persino, soprattutto per chi aveva tradito quella che lei chiamava “la rivoluzione della dignità”. Niente gelsomini, per favore, quella era un’etichetta ad effetto inventata dalla stampa più pigra.

Lei la rivoluzione l’aveva stimolata, seguita, guidata, sin dal primo momento. Era stata fra i primi, in quel gennaio del 2011, a partire per Sidi Bouzid, così da poter raccontare sul suo blog “A Tunisian girl” il sacrificio di Mohamed Bouazizi. Era importante ma estremamente rischioso, in un paese stretto da una censura rigida, riferire delle proteste e denunciare la repressione. Lei lo faceva a viso aperto, senza nascondersi, incurante delle minacce e delle incursioni della polizia. Già nel 2009 aveva avviato una campagna per la liberazione dei prigionieri politici, e l’anno dopo si era vista sequestrare macchine fotografiche e computer dalla polizia. Nel 2011 la rabbia in tutto il paese era senza più confini.

Raccontò in un’intervista: “Ho fotografato i corpi dei giovani appena uccisi dai servizi di sicurezza. Ero entrata nella casa di una delle vittime, piangevo, tremavo, non riuscivo a fotografare. La madre di uno dei martiri mi ha detto: devi farlo, devi far vedere al mondo”. E la sua testimonianza aveva contribuito a costruire la coscienza che in Tunisia qualcosa doveva cambiare. La tragedia dell’ambulante che si era dato fuoco per denunciare le persecuzioni della polizia aveva provocato un’ondata di sdegno popolare che in pochi giorni avrebbe portato in piazza l’intera Tunisia e costretto alla fuga il presidente Zine el Abidine Ben Ali, al potere da 23 anni, avviando poi una serie di rivolte in tutto il mondo arabo.

Lina aveva solo 27 anni, allora, ma aveva anche una visione politica chiara sin dal primo momento. Aveva imparato il valore delle idee in una famiglia di attivisti, grazie all’esempio di suo padre, Sadok Ben Mhenni, militante marxista e cofondatore della sezione tunisina di Amnesty International, che aveva pagato le sue convinzioni con la prigione, ai tempi di Habib Bourghiba. Sua madre, Emma, era una militante del movimento studentesco.

Lina aveva raccontato la ribellione delle donne e dei giovani in mezzo alle nuvole di gas lacrimogeno, e per un momento aveva sperato – lo confessava con un filo di amarezza – che il mondo sarebbe cambiato. Poi era arrivata la delusione, ma allo stesso tempo un nuovo pieno di energia, per contestare gli islamisti di Ennahdha, che “avevano sequestrato la rivoluzione”, e gli eredi del vecchio regime, “corrotti e prepotenti”. Quando le avevano segnalato abusi della polizia, Lina – che li aveva provati sulla sua pelle – aveva organizzato cortei e proteste. Denunciati i colpevoli, naturalmente non si potevano abbandonare le vittime. Così lei, docente di Linguistica all’università, si era rimboccata le maniche per raccogliere libri usati da portare nelle carceri.

C’era sempre una battaglia nuova, una causa preziosa, su cui investire le energie che la rivoluzione aveva risvegliato e che – lei non si stancava di denunciarlo – la classe al potere aveva tradito. C’era chi, come il sottoscritto, le ricordava che in fondo un risultato concreto, non insignificante, era stato raggiunto: la libertà di espressione aveva superato un punto di non ritorno, i tunisini si erano strappati il bavaglio, il terrore dei delatori e la censura di Ben Ali adesso non spaventavano più nessuno. Lina reagiva con un’occhiata silenziosa, come a dire: beh, se proprio ti vuoi accontentare…

Lei no, non si accontentava. E faceva finta di dimenticare i guai del suo organismo martoriato da un lupus eritematoso, la malattia autoimmune che nel 2007 le aveva imposto un trapianto di rene, donato dalla madre. Era un problema ben conosciuto, purtroppo anche dai poliziotti che in diverse manifestazioni l’avevano malmenata sulla schiena, accanendosi sulla sua fragilità. Ma lei non si era mai fermata. Come non aveva preso troppo sul serio la candidatura al premio Nobel nel 2011, allo stesso modo non voleva sentirsi legata dalle raccomandazioni delle autorità dopo le minacce degli islamisti, e ovviamente non voleva dar retta ai segnali del suo corpo vulnerabile.

Alla fine, nella notte del 27 gennaio 2020, anche Lina ha ceduto. E per una volta l’immagine retorica, che vuole il lutto trasfigurarsi nel messaggio sostanziale della vita appena conclusa, ha avuto un riscontro reale. I tunisini l’hanno salutata con affetto, la bara coperta dalla bandiera rossa con la mezzaluna portata a spalla da amiche e compagne – un fatto senza precedenti nel paese - , persino il presidente della Repubblica Kais Saied le ha reso omaggio, sottolineando che “Ci sono donne che la Storia non dimentica. Ci sono donne che fanno la Storia”.

Giampaolo Cadalanu, giornalista e scrittore

Giardini che onorano Lina Ben Mhenni

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