14 dicembre 1942. La raffica di un aereo inglese colpisce il motopeschereccio italiano Cefalo al largo dell’arcipelago tunisino di La Galite. Tra i caduti c’è anche il comandante Salvatore Todaro, figura leggendaria della Marina italiana, un uomo di appena 34 anni già pluridecorato eppure destinato a passare alla storia per i principi etici, più che per le imprese militari.
Tra i suoi effetti personali viene rinvenuta la lettera che gli era stata scritta due anni prima da una donna portoghese, moglie di un marinaio dell’equipaggio di una nave nemica. “Esiste un eroismo barbaro e un altro davanti al quale l’anima si mette in ginocchio: il vostro. Siate benedetto per la Vostra bontà che ha fatto di Voi un eroe non soltanto dell’Italia ma dell’umanità intera”. Quelle poche parole vergate su un pezzo di carta suggellavano il coraggio e la dignità di un uomo che era riuscito a non perdere l’umanità neanche di fronte ai combattimenti più feroci della Seconda guerra mondiale e alle logiche belliche imposte da un alleato senza scrupoli.
Nella notte del 15 ottobre 1940 Il capitano di corvetta della Regia Marina Salvatore Todaro aveva consegnato il suo nome alla storia rendendosi protagonista di un’azione umanitaria al limite dell’inverosimile, almeno in tempo di guerra. Dopo aver affondato a cannonate un piroscafo nemico aveva raccolto i naufraghi sul suo sommergibile mettendo a rischio sé stesso e il suo equipaggio. L’ammiraglio tedesco Karl Dönitz, comandante della forza sottomarina dell’Asse, l’aveva redarguito duramente. “Neppure il buon samaritano della parabola evangelica avrebbe fatto una cosa del genere”, gli aveva detto l’ufficiale nazista. Ma Todaro credeva fermamente in quella legge non scritta che impone di prestare aiuto a chiunque rischi di perdere la vita in mare. E aveva agito seguendo ciò che gli imponeva la sua coscienza.
Nato a Messina nel 1908 e cresciuto a Chioggia, dove la sua famiglia si era trasferita per seguire il padre, sottufficiale del Regio Esercito, si era arruolato all’Accademia Navale di Livorno nel 1923, ad appena quindici anni, dando inizio a una carriera di grande prestigio, che gli sarebbe valsa la medaglia d’oro al valor militare, tre d’argento e due di bronzo. Ma oltre al valore militare delle sue imprese, il comandante Todaro sarebbe stato ricordato per la sua etica, per il suo coraggio, per la sua umanità. Le foto dell’epoca, che lo ritraggono con lo sguardo magnetico e un pizzetto di barba nerissima, non lasciano minimamente intravedere la grave menomazione che aveva riportato in una missione a La Spezia dell’aprile 1933. Un incidente aereo gli era costato una frattura della colonna vertebrale che l’aveva costretto a portare un busto per tutta la vita.
Rientrato nei ranghi della Marina, subito dopo l’ingresso dell’Italia nella Seconda guerra mondiale era diventato il comandante del “Cappellini”, un sommergibile che faceva parte della base oceanica di Bordeaux da dove partivano gli u-boot tedeschi e i sottomarini italiani impegnati nella Battaglia dell’Atlantico. Nell’ottobre del 1940, mentre si trovava all’altezza dell’arcipelago di Madera, il suo sommergibile avvistò il piroscafo belga Kabalo che stava trasportando attrezzature belliche inglesi e lo affondò dopo poche ore di combattimento in emersione. In casi del genere, la regola della guerra avrebbe voluto che il sommergibile andasse in immersione allontanandosi prima possibile per non essere intercettato dal nemico, invece Todaro ordinò al suo equipaggio di andare a recuperare i soldati nemici in balia del mare e di fare tutto il possibile per metterli in salvo. Il sommergibile Cappellini tentò allora un’impresa ai limiti dell’impossibile, trainando le scialuppe dei naufraghi verso la costa più vicina che si trovava a oltre cento miglia di distanza.
Dopo un giorno di navigazione, però, il cavo di rimorchio si spezzò. Todaro ordinò quindi di far salire i naufraghi a bordo del sommergibile e di ospitarli nell’unico spazio disponibile - la torretta - per portarli poi in salvo nelle isole Azzorre, in una zona controllata dagli inglesi. Soltanto allora il comandante Todaro rientrò con il suo sommergibile alla base e lì venne duramente apostrofato dall’ammiraglio tedesco Karl Dönitz, che lo derise definendolo un “Don Chisciotte del mare” e lo minacciò di gravi conseguenze per aver soccorso i nemici mettendo a rischio il suo stesso equipaggio e il sommergibile italiano in assetto da combattimento. La sua disobbedienza equivaleva quasi a un atto di insubordinazione, poiché gli ordini dell’Asse erano quelli di non soccorrere i superstiti. Secondo molte fonti storiche mai smentite, Todaro avrebbe replicato alle critiche dell’ammiraglio tedesco con una frase memorabile: “noi siamo marinai, marinai italiani, abbiamo duemila anni di civiltà sulle spalle, e noi queste cose le facciamo”. Salvare vite umane in pericolo, non lasciar morire i naufraghi, era un dovere che veniva prima di qualsiasi esigenza bellica. Al momento opportuno aveva saputo ascoltare la sua coscienza tenendo fede ai più alti principi etici. E quell’episodio non sarebbe neanche rimasto isolato.
Il comandante Todaro tornò a far parlare di sé l’anno dopo, il 5 gennaio 1941, salvando i diciannove superstiti del piroscafo inglese Shakespeare, dopo averlo affondato nelle acque dell’Atlantico, tra le isole Canarie e le coste africane. Anche allora accadde qualcosa di incredibile: quegli uomini vengono invitati a salire a bordo della nave nemica che li ha appena attaccati, e portati in salvo su un’isola vicina.
Nei prossimi mesi il comandante Salvatore Todaro verrà onorato presso il Giardino dei Giusti di Civitavecchia
Riccardo Michelucci, giornalista