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Dai canti popolari all'opera di Istvan Bibó

il dissenso ungherese prende forma (1963-1983)

“Ogni grande arte ha un duplice volto: quanto più affonda le sue radici nei secoli passati tanto più essa potrà essere valida per il futuro. Le fronde dell’albero crescono tanto più in alto quanto più le radici affondano nel terreno. La cultura non si eredita: essa scompare rapidamente se ciascuna generazione non la riconquista. Riusciamo a fare nostro solo ciò per cui abbiamo lavorato duramente, ed eventualmente sofferto” (Zoltan Kodaly). 


Queste parole del grande compositore ungherese aprono il libro Nella memoria di un popolo, pubblicato nella collana “Paperbacks/memoria” di CSEO nel 1979, che raccoglie i risultati del lavoro di ricerca sulla cultura popolare ungherese e tzigana svolto da un gruppo di studiosi di varie discipline guidato dall’etnografa Zuzanna Erdely, con cui stringemmo un cordiale rapporto di amicizia. 


Gli studiosi del gruppo guidato dalla Erdely, di cui facevano parte etnografi, sociologi, psicologi e storici, per anni avevano battuto palmo a palmo la campagna ungherese armati di registratore e avevano raccolto decine di migliaia di testi della tradizione orale, salvando in tal modo un ricchissimo patrimonio di memoria che il regime intendeva pervicacemente cancellare, sia perché testimoniava l’anima religiosa, non sempre e non necessariamente cristiana, del popolo ungherese e tzigano, ma anche perché quella tradizione apparteneva agli strati più poveri ed emarginati della società, che secondo la propaganda ufficiale non esistevano.


Era un lavoro che continuava l’opera iniziata alla fine degli anni sessanta, dopo la sua scarcerazione, dal sociologo István Kemény, che per questo era stato costretto ad andare in esilio nel 1977. 
Non si trattava di una pura opera di archeologia popolare, bensì anche del tentativo di questo gruppo di studiosi di organizzare un sostegno materiale alle famiglie con cui erano entrati in contatto durante le loro ricerche, che spesso vivevano in condizioni di estrema povertà: raccolsero abiti e denaro e fornirono sostegno legale a chi subiva abusi sul lavoro, denunciando allo stesso tempo che il socialismo non aveva eliminato la povertà. In seguito, nel 1979, da quest’opera nacque il Fondo di Aiuto ai Poveri, la prima organizzazione sociale ungherese di aperta opposizione al regime.


Nel 1983 CSEO pubblica nella collana “La via dell’ambra”, dedicata alla poesia, una raccolta di componimenti del poeta ungherese Janos Pilinsky, scomparso due anni prima. 
Con testo ungherese a fronte, le poesie furono tradotte da uno di noi, che di Pilinsky era divenuto amico fraterno da alcuni anni. “L’editore è particolarmente grato al traduttore per l’amorosa laboriosità con cui ha compilato questa prima edizione italiana della poesia di Pilinsky. Antonio Molteni non è un traduttore professionista (…) ma questa sua fatica è nata dall’incontro con il poeta e si è alimentata ad una familiarità con lui che è diventata (…) un’amicizia e una promessa” , leggiamo nella nota di edizione. 


La pubblicazione delle poesie di Pilinsky aveva innanzitutto lo scopo di far conoscere in Italia uno dei massimi poeti ungheresi contemporanei, molto noto in Francia, Inghilterra e  Germania, ma da noi del tutto sconosciuto: “Benché Janos Pilinsky sia in realtà un poeta di chiara misura europea, la sua opera è tuttora ignota in Italia. Nel dialogo tra le culture dell’unica Europa, un’assenza così clamorosa non resterebbe senza colpa e senza danno” . 
Profondamente segnato dalle esperienze della Seconda Guerra mondiale durante la quale fu internato in diversi campi di concentramento, fino ad arrivare al campo di  Ravensbrück, egli non dimenticò mai l’orrore di cui era stato testimone e che ricorre in numerose poesie:


(…)
Li rivedo ancora e ancora,
la luna splende e una stanga si allunga
e attaccati ad essa uomini
tirano un carro immane.
Tirano il carro che cresce
insieme alla notte crescente,
polvere, fame e tremito
spartiscono i loro corpi.
(…) 
E ancora:
(…)
È sorto il sole. Sottili alberi incombono
tetri nell’infrarosso del cielo adirato.
Così mi avvio. Incontro alla rovina
passa un uomo senza parole.
Non ha nulla, ha l’ombra.
E un bastone. E la divisa del detenuto.
(…) 


Proprio da quell’esperienza nasce il contenuto della sua poetica in cui la fede è intrinsecamente legata alla profondità delle domande ultime dell’uomo ed è continuamente sfidata dalla realtà, dall’assenza di Dio e “dall’esperienza esistenziale del terrore, dal sentimento dell’assurdità dell’esistenza” .


Nonostante avesse ricevuto importanti premi internazionali, che lo consacravano come il massimo poeta ungherese contemporaneo, per molti anni Pilinsky fu emarginato dal regime, che lo considerava “troppo pessimista” per le regole imposte dal partito. Dal 1949 al 1959 gli fu impedito di pubblicare. Nel 1959 fu stampato il volume Harmadnapon (Il terzo giorno), che andò esaurito in poche ore. “Un bel giorno – eravamo nel ’59, non avevo infatti potuto pubblicare per dieci anni – ho scoperto che il mio volume  Harmadnapon (Il terzo giorno) era stato nuovamente pubblicato. Ero convinto di essere stato ormai dimenticato da tutti, quando un bel mattino mio cugino, che avevo incaricato di acquistarne alcune copie, viene da me e mi dice che sono già tutte esaurite. Non volevo crederci. Ero convinto di essere stato completamente dimenticato. Da allora ho un contatto profondo, tangibile e commovente con i lettori, di cui, in verità, non so né chi siano, né cosa facciano, tuttavia penso intensamente a loro mentre sto scrivendo” .
Harmadnapon non fu rieditato per altri dieci anni.


A metà degli anni settanta si cominciarono a vedere i primi segni di un’azione editoriale dei circoli del dissenso, che fino a quel momento erano stati frenati da un tenore di vita relativamente alto, dal ricordo ancora vivido delle repressioni seguite al 1956, e dal timore che ogni manifestazione dell’opposizione non potesse che peggiorare la situazione.
Cominciarono a circolare nei circuiti dell’editoria clandestina, attiva soprattutto a Budapest, opere di critica filosofica al marxismo e il samizdat ungherese cominciò a prendere vigore. Quindi, anche sulle pagine della rivista di CSEO fecero la loro comparsa alcuni testi che circolavano clandestinamente negli ambienti ecclesiali e dell’intellighentsia. 


Nel gennaio del 1977, un gruppo di intellettuali ungheresi firmò una lettera di solidarietà con i dissidenti cecoslovacchi  di Charta ’77 incarcerati, segno che, nonostante i divieti e le repressioni, esisteva una circolazione di informazioni fra i gruppi del dissenso dei diversi paesi, certamente favorita anche dai “visitatori” occidentali. Il regime reagì in modo molto duro: una parte dei firmatari perse il lavoro, mentre altri furono messi in carcere. Nelle intenzioni del regime queste repressioni esemplari dovevano isolare i circoli dissidenti. Invece, quest’azione repressiva intensificò il lavoro degli intellettuali, e nel tempo ne ampliò le fila. Infatti, privi di un lavoro e confinati ai margini della società, questi uomini di cultura cominciarono ad occuparsi a tempo pieno della redazione e della distribuzione della stampa clandestina, che anche noi cominciammo a portare in Italia sempre più frequentemente.


Alcuni intellettuali ci parlarono a fondo della figura di István Bibó, cui venne dedicato nel 1980 il Libro in memoria di Bibo. Bibo, storico e politologo fautore della cosiddetta “terza via”, ministro del governo Nagy durante la rivoluzione del 1956 e per questo imprigionato e condannato all’ergastolo (era stato rilasciato nel 1963 a seguito di un’amnistia), era riconosciuto negli ambienti della cultura clandestina come modello di moralità e capacità culturale
Bibo era morto nel 1979 e purtroppo non avevamo avuto la possibilità di incontrarlo di persona, ma la sua tempra morale, soprattutto la sua onestà nel riconoscere le responsabilità degli ungheresi durante la Seconda Guerra Mondiale, furono per noi molto significative. 


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Annalia Guglielmi

Annalia Guglielmi, esperta di Polonia ed Europa dell'Est

10 aprile 2014

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