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I “Giusti” in Medio Oriente per costruire una pace dal basso

editoriale di Janiki Cingoli

Le difficoltà che anche in questi giorni si registrano nei negoziati diretti israelo-palestinesi, nonostante il forte impulso dato dal Presidente degli Stati Uniti Barack Obama, testimoniano di quanto sia ardua la sfida per porre fino a questo conflitto oramai secolare. Ma al di là delle contorsioni diplomatiche e dei bizantinismi tattici che caratterizzano il processo di pace, appare sempre più evidente che vi è un problema di fondo, irrisolto: la solitudine dei leader, il loro isolamento rispetto alle rispettive opinioni pubbliche. È stata questa, certamente, una delle ragioni determinanti del fallimento dei negoziati di Camp David 2, nel ’99 – 2000, quando sia Arafat che Barack si sentirono soli, rispetto al loro popolo, e soli nel più ampio contesto regionale.
È questo che intendono affermare i sindaci israeliani e palestinesi che in questi giorni si danno appuntamento a Milano su invito del CIPMO, dopo tanti anni di incomunicabilità. I comuni sono gli embrioni di base della società, sono le istituzioni più vicine ai cittadini, e quelle che più immediatamente sentono le loro sofferenze, raccolgono le loro speranze, partecipano alla loro vita di ogni giorno. Sono proprio per questo le istituzioni più adatte a contrastare le spinte verso la disumanizzazione del conflitto, a tentare di costruire la pace dal basso, partendo proprio dalle esigenze quotidiane dei loro abitanti.

Il ruolo dei Giusti appare oggi fondamentale, anche in Medio Oriente: l’avvocato arabo palestinese di Nazareth, Khaleed Mahameed, che crea un piccolo museo dell’Olocausto a casa sua, per aiutare il suo popolo a comprendere l’orrore che ha dovuto vivere il nemico e la sua storia. Il Colonnello Shaul Arieli, già comandante della brigata israeliana di Gaza, che si dedica dentro l’organizzazione ECF a organizzare i ricorsi dei palestinesi della Cisgiordania contro il percorso del muro, riuscendo così a escludere larga parte di quelle terre; o anche l’Israeliano Yossy Beilin e il palestinese Yasser Abed Rabbo, i leader che con l’Iniziativa di Ginevra hanno mostrato che la pace è possibile, descrivendola in dettaglio.
Ma forse il concetto di Giusto deve assumere, in un contesto come quello, un carattere più ampio, includendo tutte le così numerose organizzazioni che si fanno carico di ricercare l’incontro e la collaborazione con l’altro. I Combatants for peace, generali e militari che hanno fatto le guerra e ora vogliono costruire la pace; i Parent’s circle, genitori che hanno perso i figli o comunque persone care, che scelgono di superare la barriera dell’odio e costruire la pace; le organizzazioni di psicologi, che lavorano insieme per affrontare la conseguenza dei traumi legati al conflitto, o anche le organizzazioni israeliane che si battono contro gli insediamenti e contro le demolizioni delle case palestinesi, come la stessa Peace now. A questa ispirazione ci sforziamo di ricondurre la stessa impostazione del lavoro del CIPMO.


Nella Bibbia è scritto che quando ci si siede di fronte a un interlocutore è necessario spogliarsi dei propri vestiti e indossare i vestiti dell’altro. Non si tratta di negare il conflitto, che va risolto, o di rinunciare a rivendicare i propri diritti e le proprie esigenze. Ma a questo è necessario unire la capacità di intendere le ragioni e le sofferenze degli altri. Non si tratta di fare un esercizio di buonismo, di “volemose bene”, facendo finta che il nemico non esiste. Ma è necessario tenere fermo che il nemico è un essere umano, e che la pratica della disumanizzazione del nemico finisce per disumanizzare anche coloro che la praticano, in un cerchio infernale e senza limiti.
Solo così sarà possibile costruire una pace solida, che faccia perno non solo sulle diplomazie ma anche sugli uomini in carne e ossa.

Janiki Cingoli

Analisi di Janiki Cingoli, già presidente di CIPMO - Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

12 ottobre 2010

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