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Israele, “i nemici dentro” del governo Nethanyahu

di Gabriele Eschenazi

Difendersi dal nemico. Per Israele da sempre questa è una sorta di parola d’ordine. L’esercito si chiama non per caso Zahal (Esercito di difesa d’Israele). Nella maggior parte della popolazione israeliana è ben radicato il concetto che esistano sempre dei nemici dai quali difendersi

Nemici che vorrebbero distruggere lo Stato con tutta la sua popolazione. Una volta era Nasser, che proclamava di voler “buttare gli ebrei a mare”, poi fu la volta dell’OLP, nella sua Carta mai emendata, a richiamare la distruzione dello Stato ebraico come suo obiettivo. Oggi è l’Iran il nemico più agguerrito con il suo programma nucleare e il suo espansionismo militare in Libano e Siria. E se di fatto a Israele i nemici non sono mai mancati e non mancano, bisogna anche notare come nel tempo vecchi nemici come India, Cina e Russia abbiano modificato atteggiamento e che anche Paesi arabi conservatori come Arabia Saudita ed Emirati Arabi si orientino a guardare allo Stato ebraico più come un possibile alleato che non come un nemico.

E non è forse un’esagerazione affermare che, Iran a parte, i nemici esterni d’Israele non siano mai stati così pochi e deboli come oggi. Sarà forse per questo che negli ultimi due anni il quarto governo Nethanyahu è andato a cercarsi i nemici “dentro”: istituzioni, organizzazioni, gruppi, categorie, popolazioni che dall’interno tramerebbero per indebolire lo Stato magari alleandosi con nemici esterni, persone che “si sono dimenticate cosa voglia dire essere ebrei”, “traditori”.

Nemiche sono le ONG che operano in Israele e territori occupati per documentare episodi d’ingiustizia verso la popolazione palestinese. Nemico è il Tribunale Supremo, che boccia le leggi incostituzionali. Nemici sono gli arabi israeliani, che non sarebbero fedeli allo Stato del quale sono cittadini. Nemici sono i profughi africani, che lasciati ai margini della società, ne minaccerebbero la sicurezza. Nemici sono i laici, che nel reclamare un Paese moderno con negozi aperti e mezzi pubblici nei giorni festivi attenterebbero all’identità ebraica dello Stato. Nemici sono i registi israeliani autori di film che mettono l’accento sui dilemmi morali della società, che così facendo diffonderebbero un’immagine negativa del Paese all’estero. È il caso del film Foxtrot di Samuel Maoz presentato e premiato al Festival di Venezia e boicottato dal governo ad ogni sua proiezione all’estero. Nemici sono i palestinesi, un nemico interno ed esterno nello stesso tempo.

Contro ognuno di questi nemici il governo e i suoi ministri hanno messo a punto leggi specifiche o politiche di discredito e boicottaggio.

Contro le ONG è stata elaborata una legge, non ancora approvata, che vieti loro di ricevere finanziamenti dall’estero così da soffocarne economicamente le attività. L’esempio più eclatante è quello di Shovrim Shtikà (Rompiamo il silenzio), l’organizzazione che denuncia periodicamente abusi dell’esercito israeliano. Contro il Tribunale Supremo è stata pensata una legge che limiti la sua attuale facoltà di bocciare leggi approvate dal Parlamento perché incostituzionali. Contro gli arabi israeliani si è architettata la Hok a leom, legge della Nazione, non ancora approvata, che, tra le altre cose, non consideri più l’arabo lingua ufficiale dello Stato. Contro i profughi africani è stata decretata entro aprile un’espulsione di massa verso il Ruanda, col quale sarebbe stato firmato un accordo segreto. Le assicurazioni date dal governo al Tribunale Supremo sul destino dei profughi sono state smascherate come inconsistenti da un servizio di Canale 10. Questo provvedimento contro il quale si sono levate proteste in tutto il Paese mina la legittimità morale dello Stato ebraico, casa dei profughi ebrei da tutto il mondo e in passato anche di non ebrei, come successe con i vietnamiti accolti da Menachem Begin tra il 1977 e il 1979. Contro i laici i partiti ortodossi hanno chiesto e ottenuto, a forza di ricatti, che il Ministro dell’Interno (attualmente in carico all’ortodosso Aryeh Deri) possa vietare alle autorità locali di tenere aperti gli esercizi commerciali di sabato e nei giorni festivi. Contro i registi di cinema e teatro il Ministro della cultura Miri Regev si sta battendo per poter distribuire i fondi pubblici ai progetti culturali discriminandoli in base ai contenuti a lei graditi. Il Ministro Regev ha rinunciato da tempo al suo ruolo istituzionale per rendersi interprete di un pensiero unico, quello nazionalista dei partiti di governo. Il Ministero della cultura israeliano si sta trasformando in una sorta di Minculpop di fascista memoria. Contro i palestinesi condannati per terrorismo è stato minacciato il ricorso al “deterrente” della pena di morte senza indicare se questa pena potrebbe essere eventualmente comminata anche a terroristi ebrei e contro il parere sfavorevole dei servizi di sicurezza e dell’esercito.

A tutti questi nemici interni Bibi Netanyahu ne ha aggiunto uno personale e cioè il capo della polizia israeliana Roni Alsheikh, che da mesi sta conducendo indagini su quattro diversi episodi controversi di “abuso di fiducia” e corruzione, che coinvolgono lo stesso capo del governo, sua moglie Sarah e suoi stretti collaboratori. Il lavoro di Alsheikh è oggetto di una campagna di delegittimazione sistematica orchestrata con un organizzato lavoro di propaganda mediatica in Parlamento, in pubblico, sulla stampa filogovernativa.

Che succede dunque alla democrazia israeliana da sempre apprezzata per la sua capacità di amministrare con saggezza un pluralismo culturale e religioso composito e comportarsi eticamente nel confronto con i nemici? Possiamo dimenticare, per esempio, le manifestazioni di piazza oceaniche contro il massacro di Sabra e Chatila e la successiva commissione d’inchiesta che censurò l’operato dell’allora ministro della Difesa Ariel Sharon?

Sembra che il vento di destra e di nazionalismo che sta soffiando in Europa e negli Usa sia arrivato anche nello Stato ebraico, dove a una destra liberale e democratica è subentrata una destra antidemocratica, ottusa e corrotta. Gli anticorpi, però, esistono ancora. Da diversi mesi migliaia di persone manifestano tutti i sabati a Tel Aviv e in altre città contro la corruzione. Intellettuali e organizzazioni umanitarie si sono mobilitate per difendere i profughi dai provvedimenti di espulsione forzata e la battaglia non si è ancora conclusa. Laici e tradizionalisti sono scesi in piazza ad Ashdod per difendere il loro diritto a trascorrere i giorni festivi come credono e non secondo i diktat dei rabbini. 

Nel 2019 ci saranno le elezioni, che daranno la possibilità all’elettorato israeliano di modificare gli equilibri parlamentari in senso meno nazionalista e meno antidemocratico.

Analisi di Gabriele Eschenazi

12 febbraio 2018

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