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Omaggio al Cardinale Martini

figura del dialogo tra ebrei e cristiani, a 50 anni dal Concilio Vaticano II

Commemorazione del Cardinale Martini 
pronunciata da Stefano Levi Della Torre il 7 settembre 2012 nell'ambito 
del Festival della Letteratura di Mantova, e pubblicata in "Ha Keillah" 
n°185, bimestrale ebraico torinese.


Ai primi di settembre, la coda si snodava in volute pazienti in piazza del Duomo. Erano migliaia di persone che scorrevano lentamente  giorno e notte per rendere omaggio alla salma del Cardinale Martini esposta nella cattedrale: un evento straordinario nelle sue dimensioni, che esprimeva il riconoscimento  non solo religioso ma anche  civile e laico alla figura del Cardinale, che pure aveva lasciato da molti anni (dal 2002) la sua funzione di arcivescovo di Milano . Anche i rabbini si sono raccolti presso l’arcivescovado a leggere salmi in onore del Cardinale, in ricordo di quanto  avesse  operato per avvicinare ebrei  e cristiani. Perché questo è stato uno degli impegni più significativi di Martini: dare seguito dottrinale e fattivo alla Dichiarazione Nostra Aetate emessa dal Concilio Vaticano II, che adombrava una svolta nel rapporto tra Chiesa ed ebraismo, e nella stessa cristologia.  Dopo due millenni di un magistero che de-ebraizzava la figura del Cristo, la Nostra Aetate apriva la strada a un riconoscimento dell’incarnazione non solo umana ma anche storica del Gesù dei Vangeli, fino all’affermazione dei Sussidi del 1985: “Gesù è ebreo per sempre”. E fino alla visita di Giovanni Paolo II alla sinagoga di Roma nel 1987. Ma le novità del Vaticano II erano contrastate, tanto che uno dei principali promotori di esse, il cardinale Bea, subiva dalla destra curiale l’accusa di cripto ebraismo; tanto che, circa l’antisemitismo, l’originaria versione conciliare che lo condannava si sviliva per compromesso  a “deplorarlo”.


Col tempo,  possiamo vedere quanto la battaglia interna al Vaticano II sia tuttora in corso. Giovanni Paolo ha ancora tenuto in bilico le anime contrastanti, fino a beatificare nel Giubileo del 2000 Giovanni XXIII e Pio IX: due papi che litigheranno in cielo. Ma il suo successore Benedetto XVI ha poi fatto pendere la bilancia dal lato destro, tanto da dedicarsi a reintegrare l’opposizione fondamentalista dei lefevriani. Ridotta a schema, la questione verte su quale rapporto ci sia tra il Vaticano I, indetto da Pio IX, il “Papa Re” che pretendeva il primato sui popoli e i governi, il papa dell’ “infallibilità” papale e della condanna, nel Sillabo, della libertà di coscienza, del liberalismo, del socialismo e della democrazia,  e il Vaticano II, indetto da Giovanni XXIII, il papa dell’apertura al mondo: tra i due Concili, continuità o svolta? Il papato attuale propende per la continuità, il Cardinal Martini interpretava il Vaticano II come una svolta.
 
 Sul Venerdì del 14/9/ 2012, Vito Mancuso riassumeva bene i termini di quella svolta: “1) La Bibbia, da testo sconsigliato e persino vietato ai laici, viene promossa e diffusa; 2) gli ortodossi e i protestanti da scismatici ed eretici diventano ‘fratelli separati’; 3) gli ebrei, da ‘perfidi giudei’ diventano ‘fratelli maggiori’; 4) le altre religioni da idolatrie diventano vie verso Dio e la salvezza; 5) la libertà di coscienza passa dalla condanna a insegnamento; 6) il potere [papale] viene ripensato alla luce della collegialità [dei vescovi]; la liturgia ha un nuovo rito, si abolisce il latino [per rendere comprensibile la funzione], si sposta l’altare [ad esprimere il concetto dei    fedeli come ‘popolo di Dio’]”. Conclude Mancuso: “Il Vaticano II ha avuto una maggioranza progressista e una minoranza conservatrice. A distanza di mezzo secolo la minoranza di allora è diventata maggioranza di oggi”, poiché da più di mezzo secolo “il Vaticano produce nomine tutte a senso unico”, in senso cioè, a dir poco , conservatore. “Ciò che si è perso – dichiarava Martini in un’intervista – è proprio quell’entusiasmo, quella fiducia, quella capacità di sognare … si è tornati a una certa mediocrità”.


Della maggioranza conciliare di un tempo Martini era stato un’avanguardia, alla fine dei suoi giorni era in minoranza, ma riferimento per i movimenti di base ecclesiali e laici. Esprimeva orizzonti spirituali ed etici che finivano per essere anche politici. Nel tempo del terrorismo, gruppi armati consegnarono a lui le armi. E fu promotore di tre iniziative esemplari: diede un forte impulso all’apertura ecumenica; fondò nel 2002  con don Colmegna, la “Casa della carità” (la cui direttrice è ora vicesindaco con Pisapia),  per mettere a frutto un grande lascito a favore dei poveri e degli immigrati; istituì nel 1987  la “Cattedra dei non credenti”, in controtendenza di fatto a una “Milano da bere”, craxiana e pre-berlusconiana.  La “Cattedra” non  aveva il programma di indottrinare gli “infedeli”, quanto al contrario quello di ascoltarli, di confrontarsi con punti di vista diversi, di ricevere stimoli da chiunque avesse l’impegno di pensare. Diceva infatti il Cardinale che le persone si dividono non tanto tra credenti e non, quanto tra chi pensa e chi rinuncia a pensare.  Questo era lo spirito dichiarato della “Cattedra”, che si svolse d’anno in anno all’Università Statale ad aule collegate con debordante affluenza di pubblico. Fui invitato due volte a parlare alla “cattedra”, e quando incontrai il Cardinale per la prima volta a tu per tu, accadde che io lo guardavo dal basso, essendo io molto basso, e che lui invece mi guardava  dall’alto della sua statura corporea e della sua magnificenza di Principe della Chiesa;  eppure mi colpì una sua inaspettata timidezza. La intesi, con ammirazione e con simpatia, non solo come affabilità del carattere, ma come l’umiltà del sapiente che si misura con l’enormità dei suoi compiti e con una verità che non ha la presunzione di possedere, ma che indaga nel dubbio, con sincerità di mente e di cuore.


Feci, alla “Cattedra”, una relazione da non credente sul “silenzio di Dio”, silenzio di una potenza che riesce a  contare nella storia senza neanche lo sforzo di esistere; e in seguito dagli ambienti del Cardinale mi giunse in regalo, in sintonia con quanto avevo detto sulla trascendenza per un laico, un testo di Dionigi l’Aeropagita,  maestro della “Teologia negativa”, secondo cui del trascendente si può dire quel che non è piuttosto che quello che è, al contrario di quanto fanno le confessioni canoniche, sicure di sapere quello che Esso è e, soprattutto, vuole.


Mi spingerei a parlare di una laicità di fondo del Cardinal Martini, laicità nel senso di una messa in discussione delle figurazioni religiose come concezioni umane e storiche del non umano, di ciò che trascende l’umano. “Molte volte ho insistito – scriveva ne Le tenebre e la luce (Piemme 2007) – sulla necessità di giungere a superare le tradizioni religiose quando non sono più autentiche. E ho pure affermato, a proposito di imparare a vivere tra diversi – la sfida più urgente della nostra civiltà – che non dobbiamo tanto insistere sull’ortodossia religiosa delle singole parti, auspicando che ciascuna sia al meglio secondo la sua religione. Personalmente, non sono favorevole al dialogo religioso quando considera le religioni come monoliti”.


Nel tempo in cui Benedetto XVI poneva come asse del magistero la verità esclusiva dell’ortodossia cattolica  e la lotta al “relativismo”, Martini affermava di contro che c’è un relativismo propriamente cristiano. Che cosa di più saggiamente relativistico dell’intenzione di “superare le tradizioni religiose quando non sono più autentiche”? E in che senso una tradizione può essere stata “autentica” un tempo per poi non esserlo più, se non attraverso un disconoscimento della sua pretesa verità letterale, ma solo riconoscendone una caduca funzione simbolica soggetta alla corrosione della storia? Che cosa di più laicamente relativistico che sottoporre alla storia certe verità già canonizzate come eterne e irrevocabili? Mi riferisce Silvia Giacomoni di aver ascoltato un’omelia sull’ “Immacolata Concezione” (su Maria concepita senza peccato), in cui il Cardinale meditava sui due sensi del termine “concezione”: la concezione di un essere umano e la concezione di un’idea…L’Immacolata Concezione è una verità o un pensiero simbolico? Era stato Pio IX a stabilire l’”Immacolata Concezione” come dogma nel 1854 ed era lo stesso Papa ad aver indetto il Vaticano I, ma il Cardinale Martini, abbiamo visto, propugnava il Vaticano II come una svolta rispetto al passato.


Visse il Cardinale i suoi ultimi anni a Gerusalemme, per rientrare infine in Lombardia. Intendo che per lui il “salire” a Gerusalemme, al pari dei suoi studi di biblista e il suo ascolto dell’ebraismo, significasse un ritorno: un ritorno all’origine volto a “superare le tradizioni religiose quando non sono più autentiche”. Risaliva al ceppo dell’ “olivo buono”, per ripulire la sua fede e la sua dottrina da concrezioni storiche ridotte a baluardi della conservazione. Risaliva alle origini per guardare avanti con spirito aperto. Aprì al controllo delle nascite come all’autodeterminazione delle morti. Chiese di essere sedato per poter morire. Lontano, a me sembra, da quel culto idolatrico della vita puramente biologica assunto a valore “non negoziabile” dal fondamentalismo clericale, come se l’essere umano fosse fatto per la vita e non la vita per l’essere umano.


Carlo Maria Martini è sempre stato chiaro nelle sue affermazioni e nei suoi atti, eppure, per ruolo e in quanto gesuita, ha evitato uno scontro aperto. E per questa sua fedeltà istituzionale  ha offerto il fianco a chi preferisce  coprire il suo dissenso per dare l’immagine artificiosa di una Chiesa sostanzialmente concorde sotto l’autorità papale. 


Ma quello che fu e quello che lascia Carlo Maria Martini ce lo dicono, in positivo, l’immensa folla che ha reso omaggio alla sua salma; in negativo, quello che è stata davanti alla sua morte l’atteggiamento della destra curiale e politica, divisa tra un’imbarazzata censura del suo pensiero e del suo dissenso, e l’attacco diretto. Sul suo feretro Giuliano Ferrara intonò con sincerità la sua condanna sprezzante, esprimendo il fastidio istintivo di questa destra per tutto ciò che reca i segni di una generosa nobiltà: in essa vede il nemico.  

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