Pierantonio Costa è stato uno di quelli – come direbbe lui – che alla mattina vuole potersi guardare allo specchio, senza provare vergogna. E per poterlo fare, nel 1994, in Ruanda, quando il Paese divenne per cento terribili giorni un mattatoio, lui si mise a salvare persone. Ne portò al sicuro quasi 2.000. Poche, rispetto al milione di morti del genocidio. Ma tantissimi per un uomo solo, con i mezzi limitati che poteva avere un imprenditore e console onorario d’Italia nel piccolo e devastato Ruanda.
“Chi salva una vita salva il mondo intero”, recita la famosa frase. Perciò, un Giusto. Usò tutto ciò che era in suo potere per salvare qualcuna di quelle vite, soprattutto di tutsi ruandesi: creò delle false liste di persone da mettere “sotto la protezione del Governo italiano”, e dette fondo a tutto il denaro che aveva a disposizione in quelle terribili settimane per portare fuori dal Paese chi era in pericolo, soprattutto tanti bambini, che oggi sono giovani donne e giovani uomini adulti. Le risorse impiegate non erano certo l’aspetto importante, per lui. Quello che contava era di non aver potuto fare di più. Si macerava nel rimorso di non aver speso più energie, più tempo, più viaggi, più notti, in quei maledetti 100 giorni. Troppi suoi amici, conoscenti, o anche solo persone che aveva saputo essere in pericolo non era riuscito a salvarle, non aveva fatto in tempo. E per loro gli si incrinava la voce, anche dopo 10 anni, anche quando, in seguito, andammo in decine di incontri a parlare di Ruanda, del genocidio, del suo impegno per mettere in salvo qualche vita umana.
È stato un imprenditore di successo, Pierantonio Costa. Ed è stato per una quindicina d’anni il Console onorario italiano a Kigali, prima e dopo il genocidio, dal 1988 fino al 2003. Dopo quella stagione di sangue, aveva ricominciato, in Ruanda, praticamente da zero. Probabilmente si sentiva tanto ruandese quanto italiano. Di sicuro si sentiva cittadino del mondo, come tutta la famiglia Costa, sparsa fra diversi Paesi e continenti.
Un Giusto non nasce dal nulla. I Costa hanno una lunga storia africana, che inizia col padre di Pierantonio, Pietro Giuseppe, nella lontana epoca coloniale. Pietro Giuseppe emigra nel 1913 da Montebello Vicentino in Somalia. Rientra appena in tempo per andare a combattere a Caporetto, e dopo la guerra riparte, questa volta per l’Angola. Nel frattempo ha sposato una ragazza milanese, Mariangela Colombo.
Dopo varie vicissitudini e una leggendaria traversata a piedi che dura otto mesi, Pietro Giuseppe Costa nel 1926 va a installarsi a Bukavu, sul lago Kivu, in Zaire, proprio al confine col Ruanda. Mette in piedi una florida piantagione, soprattutto di arance e caffè, ma nel frattempo cominciano a nascere i figli, e Mariangela preferisce rientrare in Italia. Ne avrà sette. Pierantonio, il penultimo dei fratelli, nasce così il 7 maggio 1939 a Mestre e studia poi a Vicenza e Verona.
La madre, nel frattempo, muore. Il padre, nel 1950, rientra in Zaire. A quindici anni, Pierantonio conclude gli studi e lo raggiunge a Bukavu. Si trova, giovanissimo, a vivere la prima esperienza di guerra africana: la rivoluzione zairese al momento dell’indipendenza. Ed è forse in quell’occasione che prende il “vizio”: nel 1960, quando la popolazione fugge da Bukavu in preda agli scontri, Pierantonio e alcuni dei suoi fratelli fanno la spola di qua e di là del lago Kivu con un battello a remi, portando in salvo gruppi di congolesi. Negli anni successivi scoppia la violentissima rivoluzione mulelista, che prende di mira anche i bianchi. Pierantonio decide di lasciare il Paese e trasferirsi nel vicino Ruanda, che ha da poco ottenuto l’indipendenza. Il 5 maggio 1965 gli viene concesso il primo permesso permanente di residenza in Ruanda, dove da allora ha sempre vissuto, dove ha sposato Marian (cittadina svizzera) e dove sono nati i figli, Olivier, Caroline e Mathieu.
Io lo conobbi, come tutti i giornalisti italiani che si recavano all’epoca in Ruanda, nel corso di una missione all’interno del Paese, mentre erano in corso i massacri. Viaggiammo insieme per soli tre giorni, dal 19 al 21 maggio 1994. Andavamo con un missionario rogazionista, padre Giorgio Vito, e un pediatra di Varese, il dottor Luigi Mussi, all’orfanotrofio di Nyanza. La spedizione comprendeva anche due colleghi: il “mitico” fotoreporter Nino Leto, che lavorava con me per Famiglia Cristiana, e l’inviata di Repubblica Renata Pisu.
Padre Giorgio e il dottor Mussi si sarebbero fermati là, e con noi sarebbero tornati altri due missionari, il padre rogazionista Eros Borile e don Vito Misuraca, prete diocesano. Eros e Vito erano distrutti da un mese e mezzo di fatica e di tensioni per cercare di salvare i sempre più numerosi bambini dell’orfanotrofio (quando arrivammo erano 568; poi diventarono più di 600, e al termine della guerra crebbero ancora fino quasi a mille). Mussi e padre Giorgio, che davano loro il cambio, andavano volontariamente a infilarsi in una vicenda rischiosa e delicatissima: sfamare e proteggere quei bambini, molti dei quali – di etnia tutsi – erano allora le prede preferite delle bande di assassini responsabili del genocidio.
In quei viaggi si fanno molte ore in fuoristrada, si mangia e si vive costantemente insieme. In quella spedizione da Bujumbura a Nyanza, poi, si condivisero pure le tensioni, le paure, le decisioni vitali. Insomma, si diventa amici, in quelle circostanze, di un’amicizia del tutto singolare. E infatti, ricordo con affetto tutti quei compagni di viaggio.
Ebbene, tutti i partecipanti avevano uno scopo ben preciso per rischiare la pelle in mezzo ai posti di blocco dei miliziani ruandesi. Mi era chiara la scelta di ciascuno, ideale e/o professionale. Meno che di uno. Perché Costa accompagnava quella spedizione? Come imprenditore, no di sicuro. Come console non era certo tenuto a farlo. Quindi?
Indagai, glielo chiesi. Ma il burbero benefico personaggio liquidava la faccenda con due borbottii. Non riuscii a sapere perché si stava prodigando, ma in compenso scoprii (singolare circostanza) che eravamo nati a un centinaio di metri l’uno dall’altro: entrambi a Mestre, stessa zona, stesso quartiere. Scoprirlo in Ruanda, durante una delle peggiori apocalissi del ventesimo secolo, fa nascere forse una simpatia e un quid di complicità in più.
Dopo la guerra venni a sapere dettagli e brandelli delle sue imprese: colleghi, volontari, missionari mi raccontavano di quanto si era dato da fare Pierantonio, dei rischi personali che aveva corso, delle tante persone che aveva aiutato a uscire dal Ruanda. Venni a sapere che era stato insignito della medaglia d’oro al valore civile per aver portato in salvo gli italiani presenti in Ruanda all’inizio della guerra. E che un’altra onorificenza gli era stata attribuita, per analoghe ragioni, dal Belgio. Insomma, c’era indubbiamente qualcosa di particolare nel comportamento di questo atipico e poco diplomatico console.
Le pagine della sua storia raccontano, certo, un uomo al di fuori del normale e imprese che destano ammirazione assoluta. Ma anche, attraverso gli occhi e le riflessioni di Pierantonio, uno dei più terribili avvenimenti del secolo appena trascorso: il Ruanda del genocidio.
La biografia è tratta dell’articolo "Ricordo di Pierantonio Costa", scritto per Gariwo da Luciano Scalettari in occasione della scomparsa di Pierantonio Costa il 2 gennaio 2021.
