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I primi tempi a Lublino

tra carenza di cibo e stampa clandestina

Lublino

Lublino

I primi tempi a Lublino non furono facili: l’impossibilità di comunicare con l’Italia, la lentezza e della posta e la difficoltà nello stare attenta a quello che scrivevo pesavano non poco. Inoltre non conoscevo la lingua e, pensando di rimanere solo un anno e quindi di avere poco tempo, i primi mesi cercai di frequentare il meno possibile persone che parlassero italiano, francese o inglese per forzarmi nello studio del polacco. Questo però mi metteva in situazioni difficili e mi condannava a una grande solitudine, tanto che a un certo punto pensai di rinunciare e tornare in Italia. Mi frenò solo l’orgoglio, e questa fatica fu premiata, perché già a dicembre cominciai a balbettare le prime frasi di senso compiuto e a capire il senso di quello che mi veniva detto.

La situazione economica era sempre più disastrosa e cominciava a essere veramente difficile trovare da mangiare. Una volta entrai in un negozio per comprare del formaggio che avevo visto in vetrina, ma la commessa in malo modo mi disse: “Dekoracja”, i formaggi, le bottiglie di latte, la carne in scatola, tutto quello che avevo visto, erano di plastica. Un’altra volta volevo comprare delle cipolle. Entrai in cinque negozi inutilmente e uscendo dal quinto, dove mi avevano detto “nie ma”, non c’è, mi sorpresi a pensare: “è ovvio”, ma poi mi riscossi, non poteva essere ovvio che nella quinta città della Polonia nel XX secolo, nel cuore stesso dell’Europa non ci fossero le cipolle. Quella rassegnazione che mi aveva preso di fronte a una situazione evidentemente assurda e anomala era esattamente quello che ci veniva chiesto: accettare come normale ciò che normale non era, e questo in tutti i campi. Quindi mi dissi che dovevo tenere alto il livello di sensibilità, per non farmi “normalizzare”.
Inoltre, imparai ben presto che valeva la pena fermarsi là dove c’era una fila di persone davanti a un negozio, indipendentemente da quello che era in vendita, e che le cose andavano comprate quando le si vedeva, non quando se ne aveva bisogno. La carne era praticamente assente dalla nostra dieta, basata soprattutto su patate, cavoli e strutto. L’unica cosa che non mancava mai era la vodka.

Volevo condividere in tutto la situazione dei Polacchi e quindi avevo deciso di vivere solo del mio stipendio di insegnante, senza cambiare al mercato nero i dollari che avevo portato con me, e senza usufruire dei negozi dove si poteva acquistare solo con valuta estera, i Pewex, che erano riforniti di ogni ben di Dio (cioccolata, carne in scatola, vino, olio, ma anche sapone, shampoo, dentifricio) che non si trovavano altrove. Fui costretta a venir meno a questo impegno solo per potermi comprare un cappotto adeguato alle temperature dell’inverno polacco: il mio, comprato ovviamente in un normale grande magazzino di Stato, costava una mensilità della mia retribuzione di insegnante universitaria. Anche questo mi fece capire che il socialismo reale altro non era che povertà garantita per tutti: per poter comprare una FIAT 126 bisognava aspettare una decina d’anni e costava 20 anni di uno stipendio medio; la maggior parte delle famiglie viveva in coabitazione, e quando, dopo molti anni dalla presentazione della domanda, veniva assegnato un appartamento in un blok, (i grandi palazzoni di cemento che ancora oggi possiamo vedere nelle periferie di tutte le città dei paesi dell’Europa centrale) si aveva diritto a 10 mq a testa.

Ovviamente questa situazione creava infinite occasioni di corruzione a tutti i livelli, anche i più quotidiani, da un tavolo in un ristorante completamente vuoto, ma dove il cameriere diceva che non c’era posto finché non vedeva spuntare l’angolo di una banconota, all’avanzamento della pratica per la casa o per la macchina, all’acquisto di un pezzo di carne, perché in fondo tutto era un privilegio. E questo è uno dei tratti caratteristici dei regimi totalitari: la vita del cittadino, anche nei suoi aspetti più quotidiani e banali, dipende in tutto e per tutto dal potere centrale, che decide in modo arbitrario.

Col passare del tempo imparai un nuovo e specifico vocabolario: le cose non si compravano, si avevano “sottobanco”, oppure bisognava in qualche modo “combinarle”, ed era indispensabile avere delle “aderenze”, delle “conoscenze”. Tale pratica spesso cominciava in modo innocente: la direttrice del negozio teneva da parte una scatoletta di carne, il cartolaio riservava una risma di carta, il medico faceva avere un posto in ospedale. Tuttavia era un’attitudine che, se estesa a tutti i campi della vita, poteva diventare pericolosa: si cominciava a ingraziarsi il funzionario di turno per ottenere la casa, il direttore della fabbrica per avere un lavoro migliore, il funzionario di polizia per avere il passaporto. Tutti questi “favori” avevano un prezzo, e da lì il passo alla collaborazione con i servizi di sicurezza era molto breve.

Questa pesantezza del quotidiano era resa “leggera”, anzi, “leggerissima” dallo stupore e dall’entusiasmo che mi prendevano continuamente di fronte alle persone e alle realtà che incontravo. Quando il mio polacco fu sufficiente per permettermi di capire, cominciai a partecipare agli incontri settimanali del gruppo che ruotava attorno alla rivista Spotkania e a quelli organizzati da padre Ludwik Wisniewski presso la chiesa dei Domenicani. Partecipando agli incontri prendevo molte precauzioni e imparai presto a dimenticare nomi e volti: la mia posizione di straniera mi obbligava a tenere molto alto il livello di attenzione, perché sapevamo che ero controllata dagli organi di sicurezza - cosa che è stata confermata dai documenti dei servizi portati alla luce dopo il 1989. Ci incontravamo settimanalmente in appartamenti, che per ragioni di sicurezza cambiavamo con molta frequenza, e di volta in volta invitavamo insigni personalità del mondo culturale che affrontavano le più diverse tematiche: letteratura, storia, economia, sociologia, ma anche temi di attualità internazionale, offrendo un punto di vista diverso da quello proposto dalla propaganda del partito. In tal modo si creava una mentalità critica nuova, e ci si faceva un giudizio su quanto avveniva in Polonia o nel mondo. Fondamentale era il ruolo svolto in quegli anni dalla stampa clandestina, che veniva distribuita nei più svariati modi.

A Lublino l’ambiente che frequentavo era composto soprattutto da studenti universitari, che mi impressionavano per la maturità con cui prendevano sul serio la consapevolezza di avere un compito nella società, pur non vedendo nessuna possibilità di espressione pubblica del loro impegno. Avevano ben chiaro che il loro compito era mantenere viva in Polonia una scintilla di verità, innanzitutto nelle loro coscienze attraverso gli incontri con dei maestri, poi nei rapporti tra di loro, attraverso il superamento della paura e della diffidenza, e infine in quel pezzo di società che potevano raggiungere con la stampa clandestina. Non è un caso che poi, dopo il 1989, molti di quei giovani abbiano ricoperto ruoli pubblici, spesso di grande rilevanza.

L’altro filone di rapporti che seguivo con regolarità era quello con gli intellettuali di Cracovia e di Varsavia e con gli esponenti del KOR, il Comitato di Autodifesa Operaia nato dopo la repressione sanguinosa dei moti di protesta di Ursus e Radomdel 1976.

Grazie soprattutto alla crescita e alla diffusione della stampa clandestina, dal 1976 si era andato consolidando un fenomeno nuovo per la storia dell’opposizione polacca: studenti, operai ed intellettuali avevano cominciato a conoscersi e stimarsi, e si era creata una fitta rete di rapporti che, di lì a poco, avrebbe dato risultati inaspettati.

Attraverso questi rapporti avevo modo di verificare la verità di quanto ha detto il giornalista ed esponente di Solidarność Konstanty Gebert: “C’è un’idea sbagliata che consiste nel dire che sono le dittature a rubarci la libertà. La libertà non può essere rubata. La libertà è una cosa che ci appartiene, è di ciascuno di noi, di ogni individuo. Sia che viva in un Paese libero, sia che viva in una dittatura, in ogni situazione si deve vivere con la libertà dentro la testa. Io e gli amici dell’opposizione, della clandestinità, abbiamo avuto la fortuna di vivere già in un territorio liberato, anche se quel territorio liberato aveva la circonferenza delle nostre teste. Detto questo, possiamo dire che c’era già una Polonia libera. Mi sembra molto importante capire bene questo punto, perché se non si riesce a conquistare la libertà individuale, interna, non c’è nessuna possibilità di conquistare la libertà sociale o politica. Soltanto uomini liberi possono costruire la libertà e prima di tutto si diventa liberi all’interno, dentro di sé. (…) in questo modo noi in Polonia abbiamo creato una società civile, una società parallela.”[1]
E questa società parallela non era “contro” qualcuno o qualcosa, ma “per” qualcosa: per affermare una positività di verità, che, nonostante tutte le difficoltà che si dovevano affrontare, rendeva queste persone liete.

Alla fine dell’anno accademico mi venne rinnovato il contratto di lavoro, con un ampliamento dell’orario e l’aggiunta dell’insegnamento di letteratura italiana per gli studenti della facoltà di lingue.

A giugno, quando mi preparavo a partire e aspettavo l’arrivo di mia madre che stava per partire in macchina insieme ad un gruppo di ragazzi desiderosi di visitare la Polonia e di incontrare molte delle persone con cui ero in contatto, accadde un fatto particolare. Sapevo che mia madre avrebbe dovuto portare delle Bibbie in russo, e dei paramenti sacri da consegnare a padre Ludwik, che aveva molti rapporti con i cristiani dell’Unione Sovietica. Ovviamente si trattava di “materiali pericolosi”, che avrebbero potuto creare non pochi problemi se fossero stati scoperti alla frontiera. L’atmosfera in Polonia, però, era tesa: a Zamosc, una piccola città vicino al confine con l’URSS erano scoppiati dei disordini, perché i ferrovieri, esasperati dalle carenze alimentari nel Paese, avevano saldato alle rotaie le ruote di un treno carico di carne in scatola destinato all’esportazione in Unione Sovietica e questo ovviamente aveva provocato degli scontri con la polizia. Parlai con i miei amici, che mi sconsigliarono vivamente di far venire mia madre con quel genere di cose. Mi misero a disposizione un’auto per potermi recare a Varsavia, dove le comunicazioni erano un po’ più facili (c’era un’attesa alla posta di sole quattro o cinque ore), e chiamare la mia famiglia. La telefonata fu abbastanza lunga e surreale; ovviamente non potevo parlare chiaramente e mia madre impiegò parecchio tempo a capire che cosa intendessi dire mentre le ripetevo ossessivamente: “Qui fa caldo, portami solo cose leggere, spaghetti, pomodori e caffè, non voglio niente di pesante”, ma alla fine ci intendemmo. Quella prima protesta di Zamosc, forse, fu il preludio a quanto sarebbe accaduto di lì a un mese nei cantieri di Danzica, e comunque era indicativa di una situazione che stava diventando insostenibile, soprattutto dopo l’esperienza vissuta dalla Polonia durante la visita di Giovanni Paolo II di un anno prima.

[1] Intervento al convegno “Giusti e resistenti morali al totalitarismo”, Bologna, 22 aprile 2009

Annalia Guglielmi

Annalia Guglielmi, esperta di Polonia ed Europa dell'Est

26 novembre 2014

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