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Lettera da Danzica

di Francesco Matteo Cataluccio

I Cantieri Navali di Danzica, nel trentatresimo anniversario della firma degli accordi che permisero la nascita di “Solidarność” come sindacato legalmente riconosciuto nella Polonia comunista (30 agosto 1980), sembrano abbandonati. Oggi sono di proprietà di una società ucraina dagli incerti piani industriali: anche la cantieristica vive un momento di forte crisi. Le vecchie gru stanno ripiegate su se stesse come alti salici; non si vedono navi in costruzione; il vento del Baltico sferza i capannoni facendo cigolare e sbattere gli infissi in un frastuono cupo. Al centro dell’area, vicino ai cancelli dove la storia europea subì una brusca accelerazione, dietro all’alto monumento con le tre croci, eretto nel 1981, fervono invece i lavori: sta sorgendo un bell’edificio, tutto rivestito in acciaio Corten, che sarà, tra un anno, la nuova sede del “Centro Europeo di Solidarietà” e il Museo della storia del sindacato indipendente.

La città, tutta imbandierata, ha fatto di tutto per celebrare al meglio quella data storica: commemorazioni, premiazioni, mostre, concerti spettacoli pirotecnici. Sotto il monumento invece le autorità, i protagonisti di allora e i sindacalisti di oggi, arrivano in ordine sparso, ciascuno cercando di fare in modo di non incontrarsi con gli altri. La sigla “Solidarność” sta attaccata a un sindacato che non è più il rappresentante delle rivendicazioni politiche di una buona fetta della società polacca, ma un’organizzazione piuttosto corporativa che ha difficoltà a portare il peso di un’eredità storica così importante e non si riconosce in nessuno dei partiti (al governo o all’opposizione) che idealmente si richiamano ad essa.

In una piccola birreria del porto incontro un vecchio amico, il chimico Mirek Chojecki, uno dei fondatori nel 1976 del Comitato per la difesa degli operai polacchi (KOR), che favorì la nascita di “Solidarność”, e poi principale organizzatore di tutta la stampa clandestina polacca fino al 1989. Oggi ha una casa di produzione di film documentari, soprattutto di storia della Polonia, ed è uno dei membri onorari del “Centro Europeo di Solidarietà” che si prefigge il compito di tener viva la memoria della storia e dello spirito di “Solidarność”. È molto dispiaciuto che sia scomparso “l’originario spirito di Solidarność”, ma, da buon pragmatico, sostiene che bisogna apprezzare quello che di buono è venuto alla Polonia da quella esperienza e considerare i litigi e gli scontri successivi come “il normale esito di un paese diventato normale”. Ricordando il passato che per fortuna non c’è più, finiamo a parlare del bel film tedesco Le vite degli altri (Das Leben der Anderen, 2006), scritto e diretto Florian Henckel von Donnersmarck, e mi racconta che ha da poco messo il naso nella cartella (più di seimila fogli) a lui dedicata dalla polizia del regime comunista polacco che lo “teneva d’occhio” negli anni 1996-1981 (per gli anni successivi, nei quali visse in esilio a Parigi, organizzando da là la stampa clandestina, c’è ancora il segreto di stato, in quanto potrebbero esser coinvolti “agenti ancora in servizio”). Le scoperte che ha fatto avrebbero bisogno di uno scrittore come Bohumil Hrabal per poter essere narrate in tutta la loro carica di comica surrealità. La polizia aveva bisogno di piazzare dei microfoni in casa sua per spiare la sua vita e i suoi discorsi. Così: lo arrestarono, fecero una copia delle sue chiavi, e attesero che la moglie e il bambino fossero fuori casa. Dai verbali risulta che: una prima volta andarono ma avevan preso le chiavi sbagliate; poi trovarono il cane lupo che ringhiava e abbaiava e non se la sentirono di varcare la soglia; si rivolsero quindi ai vicini con l’intenzione di piazzare a casa loro dei microfoni a parete, ma l’unico che acconsentì la volta successiva si rifiutò di aprire dicendo che aveva parlato col figlio, emigrato in America, che lo aveva minacciato di non mandargli più un dollaro se avesse fatto una cosa simile… Pensarono allora di redergli la vita difficile: mandarono al responsabile del quartiere l’ordine di espellere il loro bambino dall’asilo (visto che i genitori, picchiati e cacciati dal lavoro, erano “disoccupati e quindi liberi di occuparsi di lui”). Dopo alcuni giorni fu risposto alla polizia che nel quartiere c’erano diciotto asili e quindi era impossibile sapere dove andasse il bambino (mentre un altro dipartimento di polizia che seguiva costantemente Mirek, aveva fatto rapporto su come tutte le mattine, puntuale, uscisse col cane e portasse il figlio a scuola…). Evidentemente i poliziotti pasticcioni non si parlavano e la gente non collaborava volentieri con loro.

Alla Biennale del cinema di Venezia è stato presentato in anteprima un film polacco molto atteso, del quale tutti a Danzica parlavano: Człowiek z nadziej (L’uomo della speranza). È il film che il grande regista Andrzej Wajda ha dedicato al fondatore di “Solidarność” Lech Wałęsa. Un film molto bello, niente affatto retorico, a volte persino assai ironico, basato su un sapiente montaggio di spezzoni documentari d’epoca e ricostruzioni girate oggi con gli stessi personaggi. L’ossatura del film ruota attorno all’intervista che Oriana Fallaci fece, recandosi apposta a Danzica, a Wałęsa, pochi giorni prima del colpo di stato militare del 12 dicembre 1981 (il testo si trova in O. Fallaci, Intervista con il potere, Rizzoli, Milano 2009). Inizialmente tra la giornalista (interpretata nel film dall’intensa Maria Rosaria Omaggio) e il capo operaio furono scintille, tanto che la Fallaci disse: “… lei ha uno stile autoritario, tipicamente dittatoriale, e siccome ce l’ho anch’io, qui si pone un problema. Il problema di trovare un modus vivendi, venire a patti insomma. Facciamo un accordo: d’ora innanzi io sarò gentile con lei, lei sarà gentile con me. Sennò ci si sbrana, va bene?”.  Incalzato dalle domande, anche molto irriverenti, Wałęsa finì con l’aprirsi e, come nel film (la sceneggiatura è dello scrittore Janusz Głowacki), mostrò anche lati più privati della sua figura. Il ritratto che ne vien fuori, e in parallelo la storia della lotta dei polacchi per la libertà e la democrazia fino alla vittoria, è molto interessante e farà riflettere, soprattutto coloro che quella vicenda non l’hanno vissuta e quelli che, fermandosi alla storia più recente, hanno dimenticato cosa rappresentarono, per la Polonia e l’Europa, Wałęsa e “Solidarność”.

Wałęsa è stato un formidabile capopolo, politicamente furbo ma anche molto saggio. Risulta ancor oggi sorprendente la sua ostinazione nel rifiutare sempre la violenza e sfuggire a qualsiasi provocazione (il massacro degli operai durante le manifestazioni a Danzica nel 1970 fu una dolorosa ferita e una lezione sempre presente in lui e nei suoi compagni) e, soprattutto, la costante fiducia nel dialogo, nella possibilità (anche quando, come dopo il colpo di stato, tutto sembrava irrimediabilmente perduto) di trovare un compromesso accettabile per tutti. Wałęsa, come si vede bene anche nel film, fu uno che subì violenze fisiche, umiliazioni e ricatti (Wajda non tace nemmeno sul controverso episodio di quando, agli inizi, richiuso per l’ennesima volta in prigione, accettò di firmare un foglio che lo chiamava a collaborare con la polizia), ma mantenne sempre la schiena dritta, aiutato da una solida fede religiosa e dall’ ostinata convinzione che, avendo ragione, prima o poi, lui e i suoi operai avrebbero vinto. Spicca nel film la forte figura di sua moglie Danuta, madre di sei figli, disperata per la loro situazione economica e familiare, ma sempre accanto a lui, anche quando non lo capiva. Il racconto si ferma al 1989: il momento della vittoria, quando il regime comunista accettò di discutere del futuro della Polonia attorno a una “tavola rotonda”. Non si vede la fase successiva dove Wałęsa, divenuto addirittura presidente della Repubblica, non si dimostrò del tutto capace di coprire quel ruolo istituzionale così diverso e lontano da quello che aveva interpretato nei Cantieri di Danzica. Ma vederlo oggi, anziano ma sempre baldanzoso, piangere di commozione mentre salutava il pubblico della Biennale di Venezia, gli restituisce, come era nelle intenzioni del film, la sua umanità e un indiscusso posto tra i grandi della storia.

Francesco M. Cataluccio, Responsabile editoriale della Fondazione Gariwo

14 ottobre 2013

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