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Verso Charta '77

Praga e la resistenza al totalitarismo

Nel 1968 l’invasione sovietica della Cecoslovacchia ad opera delle truppe del Patto di Varsavia aveva posto fine alla “Primavera di Praga”, il tentativo di Aleksandr Dubček di riformare il comunismo dando vita ad un “socialismo dal volto umano”. Nonostante la generale resistenza della popolazione che cercò di bloccare il passaggio dei carri armati costruendo barricate e “barricate viventi”, sostituendo i segnali stradali e i nomi delle strade per disturbare i movimenti delle truppe d’invasione e cercando anche un contatto con gli invasori, attraverso volantini, scritte sui muri e mazzi di fiori, la sconfitta era stata inevitabile.

Il processo di “normalizzazione”, cioè di ritorno al tipico modello sovietico, si svolse in tempi molto rapidi, e a metà degli anni Settanta i comunisti poterono annunciare il successo della loro politica e si ebbe, quindi, un certo allentamento delle repressioni, poiché sembrava che il regime avesse raggiunto il proprio obiettivo: soffocare ogni iniziativa che mettesse in pericolo il sistema. Il Paese, infatti, sembrava in letargo, e il potere del regime appariva assoluto: nessuno dubitava che le autorità fossero pronte a soffocare senza pietà ogni forma di opposizione, che, quindi, era considerata dai più inutile e insensata.

La società godeva dei frutti dello sviluppo economico e apparentemente era scomparsa ogni forma di opposizione. Ad eccezione delle attività della Chiesa clandestina, rimanevano soltanto alcuni gesti di protesta individuale, come Lettera aperta a Gustáv Husák, il nuovo segretario del partito comunista fedele a Mosca, scritta da Václav Havel l’8 aprile 1975 in cui Havel, già allora riconosciuto come grande punto di riferimento morale e culturale, descriveva la Cecoslovacchia come un Paese dove era praticamente morta ogni forma di vita pubblica, dominavano la menzogna e il terrore. Havel accusava il sistema di esercitare il proprio potere attraverso il controllo della vita quotidiana dei cittadini, controllo che egli definiva una sorta di apartheid politico, e descriveva il divieto di svolgere iniziative culturali libere un vero e proprio “mandato di cattura contro la cultura”.

Le strutture della Chiesa clandestina, nonostante le incessanti repressioni, rimasero in vita fino alla fine del regime. I sacerdoti e i vescovi clandestini svolgevano i lavori più disparati, spesso erano fuochisti di notte, portieri notturni, lavavetri, mestieri che permettevano loro di avere la giornata, o buona parte della giornata, libera per poter incontrare i giovani e svolgere, nei limiti del possibile, un lavoro pastorale.

Di alcuni nostri amici sapevamo che erano sacerdoti o vescovi clandestini, come nel caso del vescovo di Bratislava Ján Korec, o del sacerdote Václav Maly (adesso vescovo ausiliare di Praga), che di professione faceva il fuochista, e negli anni della “normalizzazione” veniva continuamente arrestato e aveva subito torture, percosse ed umiliazioni, o del cardinal Vlk che di mestiere faceva il lavavetri per poter stare sulle strade per potersi far incontrare dalla gente; di altri, invece, scoprimmo la verità solo dopo il 1989, tanta doveva essere la segretezza in cui questi sacerdoti erano costretti a vivere la loro vocazione. Ci venne spiegato poi, che non ce lo avevano rivelato più per proteggere noi che le loro persone: in certe situazioni meno si sa e più si è al sicuro.

Una delle nostre preoccupazioni principali era portare i testi del magistero pontificio, le encicliche, i materiali per la catechesi. Per questo la prima sosta era a Vienna, dove incontravamo un sacerdote che, su indicazione del suo vescovo, era riuscito a fuggire dal Paese per creare nella capitale austriaca un centro di aiuto alla Chiesa clandestina. In patria, insieme a Vlado Jukl, uno dei nostri più cari amici, era stato educato clandestinamente al sacerdozio. Scoperti e arrestati erano stati per più di vent’anni in carcere e nelle miniere di uranio, con lunghi periodi in totale isolamento, durante i quali erano riusciti a non impazzire perché, prevedendo le persecuzioni, avevano imparato a memoria il Vangelo e ne ripetevano un brano al giorno. A Vienna ricevevamo le ultime informazioni su quanto era accaduto nel Paese e venivamo “riforniti” di Vangeli, encicliche, santini, lettere, che nascondevamo nei posti più fantasiosi del nostro bagaglio e delle nostre persone. Di notte si dormiva poco: la preoccupazione per quello che sarebbe potuto accadere il giorno dopo ci portava a immaginare tutte le situazioni in cui ci saremmo potuti trovare, e soprattutto a ripetere e ripetere e ancora ripetere le risposte che avremmo dovuto dare.

La repressione invadeva anche il campo artistico e musicale, soprattutto giovanile. Nacquero così delle band rock, bandite dai circuiti ufficiali, che suonavano in cantine e case private. Anche questo era un modo per sottrarsi al volere del regime ed esprimere il proprio desiderio di libertà. Agli occhi dei servizi fare quel tipo di musica equivaleva a fare politica, e quindi cominciarono le repressioni contro gli artisti indipendenti. Paradossalmente questo portò ad una ripresa di un’opposizione organizzata: nel 1976 fu processato un gruppo di venti musicisti, fra cui un pastore protestante, e i membri del gruppo rock dei Plastic People. Il processo contro di loro divenne l’occasione perché gli oppositori dei diversi ambiti, che fino a quel momento avevano agito separatamente, si incontrassero nei corridoi del tribunale, si conoscessero e cominciassero a unire le loro forze.

La solidarietà con gli artisti in carcere fu l’occasione da cui nacque Charta ’77: una piattaforma comune dei diversi ambiti dell’opposizione per rompere l’inerzia della società.

Verso la fine dell’anno cominciò la raccolta di firme sotto la Dichiarazione di Charta ’77, che si riferiva alla Carta Internazionale dei Diritti Umani di Helsinki, sottoscritta in ottobre dal governo cecoslovacco. La Dichiarazione venne resa pubblica il 1 gennaio 1977 e fu firmata inizialmente da 242 persone, per poi arrivare a 1898 firmatari. Per limitare le repressioni, i firmatari sottolinearono che non intendevano dar vita a nessuna organizzazione, ma solo a una “comunità libera informale ed aperta di uomini di diverse convinzioni, diverse religioni e diverse professioni, legati dalla volontà di operare individualmente e insieme per il rispetto dei diritti civili ed umani”[1].

L’unica struttura formale di Charta ‘77 era la funzione di portavoce, che ricoprirono per primi Jan Patočka, Václav Havel e Jiří Hájek.

Le case di quasi tutti i firmatari furono perquisite, molti di loro persero immediatamente il lavoro, mentre i mezzi di comunicazione aprirono una durissima campagna diffamatoria contro il movimento, accusandolo di essere un’emanazione dei servizi segreti occidentali.

Pochi giorni dopo la pubblicazione della Dichiarazione, alcuni firmatari furono arrestati, fra cui Havel. Nel marzo seguente Jan Patočka morì pochi giorni dopo avere subito un durissimo interrogatorio di 13 ore a seguito delle percosse ricevute.

Charta ’77 non aveva nessuna possibilità di diventare un movimento “di massa”; non lo consentivano né l’idea che stava alla base del movimento, né la situazione socio-politica del Paese. La sua stessa apparizione sulla scena pubblica, però, cambiò significativamente la situazione della popolazione in Cecoslovacchia, perché rimise in moto in moto le persone e diede loro un senso di protezione: c’era qualcuno che si prendeva cura di loro e del bene pubblico.

All’interno di Charta ben presto si distinsero le diverse posizioni ideali o culturali, ma questo non impedì al movimento di rimanere unito e coeso. Inoltre, l’idea di identificare Charta con alcune persone ben precise, i portavoce, che si assumevano direttamente la responsabilità di ogni iniziativa, rendeva il movimento credibile e trasparente per tutti, perché lo faceva uscire dall’anonimato.

Un’importante iniziativa collegata a Charta fu la costituzione, nell’aprile del 1978, del Comitato in Difesa degli Ingiustamente Perseguitati (VONS), che raccoglieva e diffondeva la documentazione relativa ai casi di persecuzione e garantiva la difesa degli imputati ai processi politici. I membri del VONS subirono repressioni particolarmente dure, ma la loro azione contribuì a risvegliare nella società un senso di sicurezza contro lo strapotere della polizia e dei tribunali e, soprattutto, fu determinante per la circolazione delle informazioni e per rendere noti anche all’estero i nomi dei perseguitati politici.

[1] Charta ’77, CSEO Biblioteca, Bologna 1978, p. 18

Annalia Guglielmi

Annalia Guglielmi, esperta di Polonia ed Europa dell'Est

2 luglio 2015

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