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Moshé Tov (1910 - 1989)

L’ambasciatore israeliano che guidò il salvataggio di centinaia di dissidenti nel Cile di Pinochet

Alla fine del 1973, circa 300 dissidenti legati alla sinistra cilena vennero presi in custodia da diplomatici israeliani di base a Santiago, che in questo modo li salvarono dagli squadroni della morte della giunta militare che aveva appena preso il potere. Nemici della dittatura guidata dal generale Augusto Pinochet, i dissidenti venivano prelevati da nascondigli segreti, nascosti nei portabagagli delle auto dell'ambasciata israeliana e condotti fino all'aeroporto di Santiago, da dove potevano finalmente abbandonare il Cile.

A guidare le operazioni, che sono rimaste segrete per quasi mezzo secolo, c’era l’ambasciatore Moshé Tov. Intervistata dai giornalisti di Haaretz Judy Maltz e Jonathan Gorodischer, Ruth Tov, vedova di Moshé, ha raccontato che il marito scortava personalmente i dissidenti fino all’aeroporto, così da assicurarsi che non venissero intercettati e quindi giustiziati durante il tragitto.

Attraverso l’ambasciata israeliana, Tov forniva ai fuggitivi biglietti aerei, passaporti falsi e altri documenti. Almeno trenta di questi dissidenti trovarono rifugio negli uffici dell'ambasciata stessa, dove scrivanie e macchine da scrivere furono accantonate per far posto a lettini e culle. In diversi casi venivano nascosti anche nella residenza privata dell’ambasciatore. Dalia Tov-Miedzigorski, la figlia più giovane di Moshé, ha raccontato che ben preso la loro casa si era riempita di sconosciuti, che i genitori descrivevano come “zii e zie alla lontana”.

Una volta arrivati in aeroporto, diversi dei dissidenti si imbarcavano alla volta d'Israele, ma la maggioranza trovava rifugio negli Stati Uniti e in Argentina. La vedova Tov ha ribadito ai giornalisti che nel salvare i cileni si cercava di non fare discriminazione, sebbene molti di coloro che si rivolgevano ai diplomatici avessero origine ebraica. Del resto, prima del golpe militare che aveva rovesciato il governo Allende, in Cile vivevano circa 30 mila ebrei.

Tov, che era diventato ambasciatore a Santiago due anni prima, guidò le operazioni insieme a Benjamin Oron, primo segretario dell'ambasciata. L’attività di salvataggio aveva avuto la benedizione di Abba Eban, ministro degli Esteri d’Israele durante il golpe, e di Yigal Allon, suo successore.

Nato in Argentina nel 1910, prima di assumere il suo incarico a Santiago Tov era stato ambasciatore in Guatemala e aveva alle spalle una lunga carriera diplomatica in tutto il Sud America. Negli anni precedenti alla nascita di Israele si era impegnato con l'Agenzia Ebraica in America Latina, tanto che il futuro ministro degli Esteri Eban lo descrisse come uno degli "architetti chiave dell'indipendenza israeliana", per essere riuscito a persuadere i delegati sudamericani.

Delle sue azioni di salvataggio in Cile, Tov parlò molto raramente, anche in famiglia. Né tantomeno le sue gesta ebbero un seguito pubblico: solo nel 2016, 27 anni dopo la sua morte, la famiglia di Tov ha ricevuto una lettera del ministero degli Esteri cileno in cui si esprimeva gratitudine per i suoi atti di eroismo durante la dittatura.

Ma il vero riconoscimento pubblico è arrivato molto più tardi, grazie al lavoro dell’attuale ambasciatore di Israele in Cile, Marina Rosenberg, che ha commissionato al giornalista e regista Raúl Gamboni Silva un documentario sul ruolo dei diplomatici israeliani dopo il golpe cileno.

È nato così un documentario di 15 minuti, “Ambassador Moshé Tov: We Can and We Must”, che è stato proiettato al Museo della Memoria e dei Diritti umani di Santiago.

Ma a cosa è dovuto un così lungo silenzio? Spiegano i giornalisti Judy Maltz e Jonathan Gorodischer che non tutti gli ebrei del Cile si opposero al regime, che citano come esempio Jose Berdichevsky Scher, un generale ebreo che partecipò al golpe e che in un secondo momento venne nominato ambasciatore in Israele. Situazioni simili si verificarono per altri ebrei vicini al regime.

Dopo che nel 1975 Moshé Tov e la sua famiglia lasciarono Santiago, Israele diventò uno dei principali fornitori di armi del regime, che si rivolgeva a Tel Aviv per approvvigionarsi di missili aria-aria, motovedette, carri armati, aerei e apparecchiature elettroniche per l’epoca estremamente avanzate. Secondo Haaretz, il desiderio di mantenere buone relazioni tra i due paesi potrebbe aver influito sul silenzio caduto intorno a questa vicenda.

Nel documentario di Silva vengono raccontate varie storie di persone salvate da Tov, come quella della famiglia dell’attivista di sinistra Haim Hayet, ed è arricchito dalla testimonianza di Rivka Bortnick, una giovanissima dipendente dell’ambasciata che nel 1973 era da poco diventata madre. A lei l’ambasciatore aveva dato un ruolo preciso: “Procurare pannolini e latte per i bambini dei dissidenti”. Bortnick ha inoltre raccontato dei pericoli corsi dall’ambasciatore e dalla sua squadra. Persone in difficoltà davano degli indirizzi dove prelevarli, “ma non sapevi mai se si trattava di persone che davvero avevano bisogno del nostro aiuto o di una trappola”. Eppure “era un rischio che valeva la pena correre”.

Nel film c’è spazio anche per il commento della storica cilena Valeria Navarro Rosenblatt, che crede che l’ambasciatore “fosse guidato da quel noto editto che dice che ‘chi salva una vita, è come se avesse salvato il mondo intero’.”

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