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Mirza Dinnayi (1973)

fondatore di un'organizzazione che trasporta perseguitati yazidi dall'Iraq alla Germania dove ricevono cure mediche, ha aiutato diverse centinaia di persone a fuggire dai territori controllati dall'Isis

Siamo nell’agosto del 2014, all’alba del primo genocidio del nuovo millennio, quello compiuto contro la minoranza degli yazidi. I miliziani dello Stato Islamico prendono d’assedio la regione del Sinjar, in Iraq, facendo in pochi giorni strage di migliaia di civili, e rapendo altrettante donne e bambini. Mirza Dinnayi, attivista nativo della regione e residente da molti anni in Germania, conoscendo bene il territorio, guida di persona il pilota dell’elicottero impegnato a salvare vite umane da un assedio disumano, dove si muore non solo per le armi, anche per la fame e la sete.

Poco dopo il decollo, l’elicottero di Dinnayi precipita. L’attivista yazida sopravvive per miracolo, con una gamba e costole rotte. “È stato mentre giacevo tra i rottami, circondato dalla carneficina dell'occupazione dell'ISIS, che mi sono reso conto più che mai della posta in gioco, e sono stato spronato ancora di più a impegnare la mia vita per salvare i più bisognosi della mia comunità”, scriverà Dinnayi. Trasportato d’urgenza in Germania, grazie a un sistema di soccorso che lui stesso aveva creato per sopravvissuti e vittime, tornerà a breve nel Kurdistan iracheno, su di una sedia a rotelle, per proseguire subito il suo lavoro.

Più di mille donne e bambini yazidi, grazie a Dinnayi, vengono evacuati e trasferiti in Germania, dove si presta loro anche assistenza psicologica. Tra loro, anche Lamiya Haji Bashar, futura attivista dei diritti umani e vincitrice del premio Sacharov. “È il miglior lavoro che si possa fare”, racconterà in un’intervista Dinnayi, nonostante abbia rischiato tante volte di perdere la vita per salvare delle vittime, e nonostante “la loro sofferenza ti resterà impressa per sempre in una parte dell’anima”.

È grazie anche all’impegno di Dinnayi che, a genocidio ancora in corso, Winfried Kretschmann, governatore del Baden-Württemberg, decide di aprire le porte alle ragazze yazide che erano state abusate e ridotte in schiavitù dall’ISIS. Lo stato del sud ovest della Germania, caso unico al mondo, investe 95 milioni di euro, quasi l’1% del suo bilancio annuale, per coprire i costi di selezione, trattamento e trasporto di 1.000 sopravvissute yazide e dei loro figli, e per fornire loro due anni di assistenza e terapia dopo l’arrivo. Fra loro, anche il futuro premio Nobel Nadia Murad che, quando la intervisto nei pressi di Stoccarda nel 2015, mi conferma quanto Kretschmann avesse preso a cuore le sofferenze degli yazidi.

Ed è sempre Dinnayi, con l’ausilio dello psicologo curdo-tedesco Jan Ilhan Kizilhan, che aveva avuto esperienze di lavoro con vittime di stupro provenienti dal Ruanda e dalla Bosnia, ad effettuare la selezione delle ragazze yazide da portare in Germania per essere protette e assistite. Una responsabilità enorme, per lui: quando si sparge la voce, in una comunità sull’orlo del collasso, che Dinnayi ha il potere di offrire una nuova vita in Germania, lontano da persecuzione e violenze, piovono su di lui richieste e profferte di ogni tipo, in molti casi giustificabili, in altri no. Anche il programma di recupero psicologico tedesco non è affatto semplice e trova, come mi raccontano alcuni assistenti sociali che vi hanno lavorato, diverse resistenze da parte delle vittime; cosa inevitabile, se pensiamo alla difficoltà che ebbero – per lungo tempo – molti sopravvissuti alla Shoah e al genocidio armeno nell’affrontare e raccontare memorie di violenza al limite dell’ineffabile.

Un impegno straordinario, quello di Dinnayi, che ha inizio ben prima del genocidio, quando ancora una volta la piccola comunità yazida – tante volte perseguitata nei secoli – finisce vittima del fondamentalismo islamico. È il 14 agosto del 2007, quando quattro veicoli carichi di due tonnellate di esplosivo colpiscono i villaggi yazidi di Qahtaniya e Jazeera. Uno di questi è un camion cisterna pieno di carburante, il che garantisce la massima devastazione al momento dell’esplosione. Impressionante il numero delle vittime, che ne fa uno degli attentati più sanguinosi della storia del Medio Oriente. Si parla di molte centinaia di morti, di più di mille secondo le stime dell’ONG Yazda, e di oltre 1.500 feriti. Ridotti a un cumulo di macerie i villaggi coinvolti nell’attentato, mentre il terrore si impadronisce degli yazidi, che capiscono – squarciato ogni velo di dubbio – di essere al centro di una campagna d’odio tale da mettere a rischio la sopravvivenza stessa della loro comunità.

L’attacco, eseguito dai miliziani di al Qaeda, spinge Mirza Dinnayi a mettersi in azione, partendo sempre dalla Germania: inizia una raccolta di fondi per le vittime e fa pubblicare su un quotidiano tedesco una richiesta di aiuto. Due ospedali tedeschi aderiscono, offrendo assistenza medica gratuita ai bambini feriti. Il problema principale resta il loro trasferimento in Germania, complicato dal fatto che molti di loro non hanno documenti. Questo lo spinge a fondare l’organizzazione Air Bridge Iraq (in tedesco: Luftbrücke Irak), il cui nome si ispira al ponte aereo messo in atto dagli americani nel 1948 per rompere il blocco imposto dai sovietici a Berlino Ovest. Prima ancora che si arrivi al genocidio del 2014, Luftbrücke Irak aiuta 150 bambini e donne yazidi a ricevere asilo e assistenza medica in Germania.

Tanti i riconoscimenti arrivati a Mirza Dinnayi per il suo impegno: dalla nomina ad advisor per le minoranze religiose della presidenza irachena, a premi come la medaglia d’oro Staufer ottenuta dal governatore Baden-Württemberg nel 2016, fino all’Aurora Award for Awakening Humanity, ricevuto nel 2019. Un impegno, il suo, di cui hanno fatto tesoro non solo l’Iraq e la Germania, dove la sua esperienza ha aiutato a far nascere e crescere altre realtà e progetti, ma anche l’Armenia, reduce dalla catastrofe umanitaria dell’ultima guerra in Karabakh. Qui, proprio negli ultimi mesi, Dinnayi ha portato la sua esperienza ultradecennale di lavoro con vittime di traumi e violenze.

Un legame di solidarietà antico, quello fra armeni e yazidi: basti pensare alla figura di Hamu Shiru, leader degli yazidi del Sinjar onorato nel Giardino dei Giusti di Milano, che salvò la vita di moltissimi armeni durante il genocidio. E, non a caso, l’Armenia è stata uno dei primi paesi al mondo a riconoscere, con una risoluzione parlamentare, il genocidio degli yazidi. Come ricorda Dinnayi in un’intervista, i sopravvissuti a tutti i genocidi hanno qualcosa di importante in comune: “Chiamati a sopravvivere dal destino, sentono il dovere di combattere per il resto della nostra comunità umana”.

Biografia a cura del giornalista Simone Zoppellaro

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L’enciclopedia dei Giusti - Genocidio Yazidi

il 3 agosto 2014 i combattenti dello Stato Islamico dell’Iraq occupano il Sinjar, regione nel Nord dell’Iraq. Inizia così il genocidio yazida: per gli uomini la scelta è fra la morte e la conversione, mentre le donne verranno deportate, violentate e vendute.

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