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Gino Bartali: giusto tra i giusti, eroe in bicicletta

di Gianni Mura per Scarp de' tenis

«Per Gino Bartali un posto nel Giardino dei Giusti e la cittadinanza onoraria di Israele. «Campione nello sport, campione nella vita. Un uomo straordinario che ha saputo andare contro una maggioranza che non l’ha sostenuto. Non lo dimenticheremo». Questo ha detto Avner Shalev, presidente di Yad Vashem, il museo della Shoah. Su un periodo molto generoso e rischioso della vita del campione sono usciti due libri: nel 2013 La strada del coraggio dei fratelli canadesi Aili e Andres McConnon (Ed. 66th and 2nd) e nel 2018 Un vélo contre la barbarie nazie, scritto in francese da Alberto Toscano, giornalista italiano che da più di trent’anni vive a Parigi. Editore Colin, nel gennaio scorso la versione italiana di Baldini & Castoldi. Ma anche nello sceneggiato Rai, protagonista uno splendido Pierfrancesco Favino, si parlava dell’impegno di Bartali.

È così che il più accanito avversario di Coppi è entrato nella storia non ciclistica in anticipo sull’impresa più nota, quella del Tour ‘48. Ai piedi delle Alpi era staccato di oltre 20’ da Bobet, a Parigi trionfò Bartali, e la prima impresa che gli consentì di azzerare quasi tutto il distacco la compì da Cannes a Briançon. Il giorno prima, giornata di riposo, Bartali festeggiava il suo compleanno in spiaggia con i gregari, una crostata di frutta e una bottiglia di vermouth. Quella mattina, a Roma, lo studente di destra Antonio Pallante aveva sparato a Palmiro Togliatti quattro colpi di pistola, ferendolo gravemente. Per reazione, moti di piazza, morti, fabbriche bloccate, clima rovente. Dopo, molti dissero e scrissero che anche grazie alle pedalate di Bartali all’Italia era stata risparmiata una guerra civile. C’è del vero: contribuì a rendere meno pesante l’aria, ma è anche vero che la prospettiva della guerra civile non piaceva nemmeno a Togliatti, rimessosi presto in salute, né a molti comunisti. È anche vero, Gino me l’ha raccontato con dovizia di particolari, che quel giorno gli telefonò Alcide De Gasperi, leader della Dc. «Gino, puoi vincere il Tour?». «La tappa di domani sì, eccellenza, il Tour non so, ci proverò». «Grazie, fai quello che puoi, abbiamo bisogno di buone notizie».

Se quel Tour è da più di settant’anni sotto gli occhi di tutti, per molti anni niente s’è saputo del Bartali postino. Soprattutto perché non ne parlava lui: «Il bene si fa ma non si dice», amava ripetere. È stato Andrea, suo figlio, scomparso due anni fa, a fare ricerche e a inquadrare l’attività antifascista di Bartali. Che fascista, per inciso, non era mai stato. Non gli piacevano gli arroganti, non potevano piacergli i fascisti. Mai visto fare il saluto romano, unico distintivo quello dell’Azione cattolica. Ed era ricambiato. Il Minculpop aveva ordinato ai giornali di scrivere di Bartali il minimo indispensabile, il ministero dello sport decideva se il campione dovesse correre il Giro, o il Tour, o tutt’e due, senza tener conto del parere di Gino. Mussolini ricevette a Palazzo Venezia i calciatori campioni del mondo nel ‘38 in Francia, non Bartali che nello stesso anno aveva vinto il Tour, secondo italiano a riuscirci dopo Bottecchia. Bartali era profondamente cattolico. Fu sepolto col suo saio bianco-avorio da terziario carmelitano, era fra’ Tarcisio di Santa Teresa di Gesù Bambino. «L’ultimo vestito non ha tasche», altra frase sua. Era incapace di fare soldi e capace di tante altre cose.

Nel settembre del ‘43 lo convocò l’arcivescovo di Firenze, Elia Dalla Costa, figura di riferimento per Gino. Il matrimonio tra lui e Adriana lo aveva celebrato Dalla Costa. Propose a Gino di fare da postino tra Firenze e un convento di Assisi trasportando documenti che sarebbero stati falsificati per consentire alle famiglie ebree di sopravvivere nelle città (tessera annonaria per il cibo solo a chi aveva i documenti in regola) o di tentare l’espatrio o di raggiungere il sud già liberato. Bartali ci pensò su, calcolando i rischi, non tanto per sé quanto per la moglie, che si sarebbe ritrovata con un bambino di due anni e senza marito, se a lui fosse capitato qualcosa. E poi disse di sì. Riceveva le carte d’identità e le fotografie a Firenze, le nascondeva nei tubi della bici e le consegnava a padre Niccacci che le smistava a Luigi Brizi, tipografo ateo. Luigi e suo figlio Trento avrebbero stampato dei falsi che sembravano proprio veri. Circa 800 ebrei si salvarono grazie ai documenti trasportati da Bartali nei 180 km tra Assisi e Firenze. Si fermava a dormire in convento e quando i documenti erano pronti ripartiva. Il cardinale gli aveva raccomandato di non dire nulla a nessuno, nemmeno a sua moglie. Meno persone sapevano, meglio era. Se scoperto, Bartali rischiava l’arresto, l’internamento in un campo di concentramento o la fucilazione immediata. In più, era sempre meno credibile il pretesto delle uscite in bici per allenarsi: le corse erano state sospese nel ‘43. In più, altro rischio, nascondeva in casa i Goldenberg, una famiglia ebrea, i genitori e due figli. Le vite di tutti erano appese un filo, anche quella di Gino, soprattutto quella di Gino. Nel luglio ‘44 fu convocato e incarcerato due notti a Villa Triste, famigerato teatro della torture del maggiore Carità. La notte Gino non dormiva ascoltando le urla dei torturati, ma uscì indenne anche da lì, difeso da un milite fascista che da dilettante aveva corso con lui. «Ci rivedremo» disse Carità. Invece no, Firenze fu liberata nell’agosto del ‘44. E Bartali ricominciò da capo: i genitori, moglie e figlio a carico, nemmeno una lira da parte. Curzio Malaparte vedeva Bartali come simbolo d’una civiltà contadina al tramonto: il passato. E Coppi come avanguardia della civiltà industriale: il futuro. “Nelle vene di Coppi scorre benzina, in quelle di Bartali sangue”. Ma sangue buono».

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Questo articolo è comparso originariamente nel nr. 228 di Scarp de' tenis (fabbraio 2019).

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5 maggio 2020

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