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Una campagna Facebook per incitare al genocidio dei Rohingya

fin dove arrivano le parole di odio?

I rifugiati Rohingya verso i campi profughi in Bangladesh.

I rifugiati Rohingya verso i campi profughi in Bangladesh. (REUTERS/Jorge Silva)

Il Consiglio d’Europa definisce il “discorso di incitamento all’odio” come comprensivo di tutte le forme di espressione miranti a diffondere, fomentare, promuovere o giustificare l’odio razziale, la xenofobia, l’antisemitismo o altre forme di odio fondate sull’intolleranza, tra cui quella espressa sotto forma di nazionalismo aggressivo e di etnocentrismo, la discriminazione e l’ostilità nei confronti delle minoranze, dei migranti e delle persone di origine immigrata. All’interno dei meccanismi di early warning dell’ONU per prevenire i genocidi, si analizza appunto l’importanza dell’uso di un linguaggio non discriminatorio, che non inciti in nessun caso a violenza ed emarginazione.

A questo proposito, in collegamento con la campagna No Hate Speech Movement, è nata nel 2015 l’Alleanza Parlamentare contro l’intolleranza e il razzismo (No Hate Parliamentary Alliance) tra i rappresentanti dei 47 Paesi del Consiglio d’Europa a Strasburgo, per diffondere una nuova sensibilità e le buone pratiche che possono contrastare tutte le forme di odio. Pochi giorni fa, Liliana Segre ha raccolto proprio l’invito del Consiglio d’Europa a istituire una Commissione parlamentare contro l’odio all’interno dell’Alleanza, proponendola in Senato. Si tratta di una delle possibili risposte a un quadro globale d'intolleranza, nel quale l’hate speech rappresenta un problema sempre più presente. La facilità di diffusione dell'informazione tramite i canali social rende infatti estremamente semplice la divulgazione di parole di odio, che non sono solo l’opinione discutibile espressa da un singolo, ma possono costituire veri e propri meccanismi di stigmatizzazione e discriminazione di una certa etnia, ambiente sociale, religione e così via.

È quanto, in maniera estrema, si è verificato in Myanmar, dove il genocidio dei Rohingya è stato incoraggiato dai militari attraverso una campagna sistematica su Facebook. Mentre gli account ufficiali dei leader militari birmani sono stati chiusi lo scorso agosto, l'ampiezza e i dettagli della propaganda - nascosta dietro profili falsi e false notizie, come lo stupro di donne buddiste da parte della minoranza musulmana - non sono stati del tutto rilevati. Cinque testimoni - rimasti anonimi perché preoccupati per la propria incolumità - hanno descritto un piano che comprendeva centinaia di militari che, su profili creati ad hoc e pagine dedicate a celebrità nazionali con un numero altissimo di followers, hanno letteralmente sommerso gli utenti di commenti e immagini violente incitanti all’intervento dell’esercito, alla stupro e all’omicidio degli appartenenti all’etnia Rohingya, nelle ore di massima visualizzazione. L’attività era organizzata su turni, in basi apposite situate nella capitale Naypyidaw, dove tutti i telefoni, tranne quelli dei top leader, erano sottoposti a controlli. I militari avevano anche il compito di criticare ferocemente i post sfavorevoli all’esercito sugli account più popolari, fingendosi dei fan. Nathaniel Gleicher, capo della sicurezza informatica di Facebook, ha affermato di aver chiuso una serie di account, all'apparenza d’intrattenimento, che in realtà erano legati all’esercito. In totale avevano 1,3 milioni di followers. "Abbiamo preso significativi provvedimenti per fermare questo abuso e rendere più difficile compiere atti simili sulla nostra rete, le indagini sono in corso", ha dichiarato Gleicher. Il Comitato per l’informazione dell'esercito del Myanmar non ha invece risposto a nessuna richiesta di chiarimenti. Nel frattempo, si stima che l’operazione abbia coinvolto più di 700 militari e sia stata portata avanti per anni.

Sottovalutare la potenza delle parole di odio comporta dei rischi: senza incontrare particolari ostacoli, un governo autoritario ha potuto usare i social network per istigare a un atto di pulizia etnica, che ha già fatto migliaia di morti e messo in fuga un intero popolo. Sebbene non si possa colpevolizzare lo strumento, nella fattispecie Facebook, è necessario monitorarne gli utilizzi che vanno a minare i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali.

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