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Václav Havel e la Festa dei Giusti

editoriale di Gabriele Nissim

Ciò che mi aveva più sorpreso nei miei viaggi a Praga durante gli anni del comunismo è come Václav Havel fosse riuscito a cambiare nella testa della gente una percezione del tempo che alla maggioranza dei praghesi appariva senza speranza.
Se infatti negli anni ’70 dopo l’invasione russa si chiedeva ad un cittadino praghese se c’era una speranza di cambiamento la risposta era sempre negativa.
Sembrava che il comunismo sarebbe durato per l’eternità dopo i carri armati sovietici. Non era possibile fare nulla, perché nulla era possibile.
Lo pensavano i leader politici occidentali che cercavano sempre compromessi con i regimi comunisti e si affidavano all’ipotesi fantasiosa di un’autoriforma dei partiti totalitari, e lo credevano molti nell’est europeo, che ritenevano fosse completamente inutile resistere a un potere più forte di loro.
Havel però insieme al filosofo Patočka, quando ha creato Charta 77 è partito da uno dei capisaldi della filosofia stoica.
Si può essere impotenti di fronte agli avvenimenti della natura e della politica, ma l’uomo ha comunque sempre la possibilità di difendere la sua dirittura morale.
Per Václav Havel questo è il potere che ciascuno di noi ha su di sé, che nessun regime può portarci via, se noi uomini abbiamo la forza morale di esercitarlo.
 Havel ha chiamato i suoi cittadini, in particolare i giovani, a esercitare a fondo questo potere: la libertà interiore, che lui definiva come vivere la verità, è un bene prezioso che anche i peggiori dittatori e carnefici hanno molta difficoltà a scardinare.
Havel in quei tempi difficili sì è affidato all’unica speranza possibile di cui aveva parlato a Mosca il grande scrittore Vasilij Grossman.
Dopo avere assistito alle stragi naziste degli ebrei in Urss e alla morte di milioni di uomini nel gulag lo scrittore russo si chiedeva: “Nella morte della violenza totalitaria la natura umana subisce un mutamento, si modifica? L’uomo perde il suo desiderio di libertà? Dalle risposte a queste domande dipendono le sorti dell’uomo e del totalitarismo. Una mutazione della natura umana implicherebbe il trionfo universale ed eterno della dittatura, mentre l’anelito inviolabile alla libertà condannerebbe a morte il totalitarismo”.
La storia ha dimostrato, sia nella rivolte anticomuniste come nella resistenza antinazista,  che il desiderio congenito di libertà non può essere amputato: “Lo si può soffocare, ma non distruggere. L’uomo non rinuncia mai volontariamente alla libertà. E questa condizione è il faro della nostra epoca, un faro acceso nel nostro futuro”.
Affidandosi a questo nocciolo duro della natura umana Havel ha chiamato i suoi cittadini a farsi promotori di una resistenza  che  mette al centro la propria coscienza.
Chi sottoscrive Charta 77 non è chiamato a cambiare il mondo ma a difendere “l’umanità nella propria persona”, una prerogativa che tutti i cittadini possono esercitare.
Jan Patočka lo annuncia nel primo documento della Charta. Qui sostiene che il primo dovere morale dell’uomo, come afferma Kant nella Dottrina delle Virtù, è nei confronti di se stesso: prima di tutto l’uomo ha l’imperativo di difendersi contro qualsiasi arbitrio compiuto verso se stesso.
Sembra una sfida impossibile non solo contro il Potere ma anche contro quanti in Cecoslovacchia e nel resto del mondo ritengono che il tempo del comunismo sia eterno e immutabile.
Nel 1968 Dubček, il leader della Primavera, non lo ascolta.
Havel gli chiede di non abbassare la testa e di non accettare la normalizzazione con una famosa lettera.
“È in gioco - gli scrive - l’onore e la dignità di tutti coloro che hanno avuto fiducia nella sua persona e che oggi privati della parola, La considerano l’ultima speranza per cercare di salvare nel tentativo cecoslovacco l’unica cosa che si può ancora salvare: il rispetto per se stessi.”
Se sceglierai la strada della verità la gente capirà che “bisogna sempre salvaguardare gli ideali e la spina dorsale”.
Negli anni ’80 invece lo ascoltano i giovani dell’antipolitica che ho cercato di presentare con il mio documentario clandestino a Praga.
Questi giovani raccolgono il suo appello a non mentire e si organizzano nelle nuove forme della Polis parallela, non solo perché vogliono difendere il loro onore, ma perché, anche se vanno incontro a possibili persecuzioni, sono consapevoli che vivere in modo degno e virtuoso è il modo più bello e felice di condurre l’esistenza.
È questo il segreto di una resistenza che crea i presupposti della Rivoluzione di velluto.
Patočka aveva definito la nascita della Charta “una manifestazione della gioia dei cittadini”.
Aveva forse ripreso un aforisma di Diogene il cinico citato da Plutarco che descriveva cosi lo stato di soddisfazione e di ebbrezza di un uomo che ha il gusto di vivere con dignità: “Un uomo dabbene non celebra forse una festa ogni giorno?... È una festa splendida se siamo virtuosi. Il mondo è il più sacro e divino di tutti i templi… Una vita che sia iniziazione a questi misteri deve essere colma di lode e di gioia”.
Con questo spirito i firmatari della Charta e i giovani praghesi hanno  la forza di creare una nuova speranza in un Paese totalitario ed infrangono la rassegnazione.
Agiscono cosi perché non c’è altra strada per la felicità del singolo, se non cercare la verità e la virtù.
Questa eredita morale che ci ha trasmesso Havel non deve essere dimenticata in questi giorni difficili per il futuro della Comunità europea.
Ricordare i Giusti di Europa in una grande giornata di festa significa insegnare alle nuove generazioni che vale la pena di vivere con dignità, amare il gusto del pluralismo e della democrazia e avere il coraggio di prendere sempre posizione per i diritti umani.
Il gusto della gioia e della felicità ha animato la Plastic People Band e i giovani che ricordavano ogni anno John Lennon sul Ponte Carlo.
È accaduto a Praga, è un esempio per il futuro dell’Europa.
È il segreto di tutti gli uomini Giusti.


Intervento in occasione della conferenza a Praga sul tema "L'eredità di Václav Havel e la Giornata europea dei Giusti".

Gabriele Nissim

Analisi di Gabriele Nissim, Presidente Fondazione Gariwo

8 febbraio 2012

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