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Vera Vigevani Jarach (1928)

La giornalista e attivista che porta la testimonianza per la memoria delle Madri di Plaza de Mayo

Dietro il suo sguardo malinconico, Vera Vigevani Jarach nasconde le ferite profonde segnate da due dittature, che in epoche diverse l’hanno privata in modo straziante degli affetti più cari. Un nonno deportato e morto ad Auschwitz nel 1943, una figlia diciottenne rapita, uccisa e fatta sparire dai militari golpisti argentini poco più di tre decenni dopo. Ma la vita di Vera, solcata da queste due atroci perdite, è un paradigma di resistenza alle dittature e di lotta per la conservazione della memoria. Ogni giovedì, per tanti anni, ha interrotto il suo lavoro nel primo pomeriggio per raggiungere la manifestazione settimanale delle “Madri di Plaza de Mayo”, di cui è stata una delle fondatrici. Il primo girotondo delle Madres intorno alla piccola piramide di fronte alla Casa Rosada, sede del governo, risale al 30 aprile 1977. Col tempo, quel movimento spontaneo di donne accomunate dal dolore per la perdita dei propri figli avrebbe trasformato quella piazza nel simbolo della resistenza pacifica a un regime che stava annientando un’intera generazione. La reciproca solidarietà per la comune condizione di vittime dette vita ad amicizie fraterne che ricordavano quelle nate negli anni della Seconda guerra mondiale, all’interno della piccola comunità di ebrei italiani rifugiati in Argentina.

Cresciuta a Milano con la sorella, il padre avvocato e la madre volontaria in una sinagoga, Vera aveva conosciuto durante l’infanzia la barbarie delle leggi razziali fasciste. Ad appena dieci anni, nell’ottobre 1938, era stata espulsa dalla scuola pubblica insieme a tanti altri bambini e ragazzi ebrei. In quei mesi drammatici la sua famiglia decise di lasciare l’Italia per trovare rifugio in Argentina, in attesa di tempi migliori. Tutti tranne il nonno di Vera, che decise di non partire. Non voleva rinunciare alla sua attività di antiquario, alle sue amicizie e alle sue abitudini, e restò in Italia. Di lì a poco sarebbe stato uno dei tanti ebrei milanesi deportati nei campi di concentramento nazisti: finì ad Auschwitz, da dove non tornò più. Vera rimase in Argentina con i genitori anche dopo la guerra, terminò gli studi in una scuola italiana e iniziò a lavorare come giornalista culturale nella sede dell’agenzia Ansa. In gioventù comincia anche a impegnarsi attivamente frequentando altri esuli ebrei antifascisti. Nel 1949 sposa Giorgio Jarach, un giovane ingegnere triestino, anch’egli scappato dall’Italia a causa delle persecuzioni fasciste e nel dicembre 1957 nasce la loro unica figlia, Franca.

Negli anni terribili della dittatura di Jorge Rafael Videla una foto in bianco e nero che la ritrae con un sorriso spensierato e struggente sarebbe diventata una presenza fissa in Plaza de Mayo e in tante manifestazioni per i desaparecidos. Per quella ragazza diciottenne, dallo sguardo dolce e dal temperamento forte, avida di conoscenza e sicura dei propri ideali di giustizia, il destino aveva riservato un violento sequestro, la prigionia clandestina, la tortura, e infine la morte. I militari che avevano preso il potere con un colpo di stato il 24 marzo 1976 erano decisi a reprimere nel sangue ogni forma di conflitto sociale e Franca Jarach, giovane attivista dei collettivi che osavano opporsi al regime, era la vittima predestinata di una dittatura che silenziosamente e inesorabilmente cominciava a far sparire giovani, sindacalisti, lavoratori, intellettuali. Anche quando il suo sequestro divenne un rischio reale, Franca non aveva voluto ascoltare i genitori, che le consigliavano di tornare in Italia, dove l’avrebbero raggiunta. Aveva deciso di restare, proprio come aveva fatto il nonno di sua madre molti anni prima. Il 25 giugno 1976 i militari la fermarono in un bar e la sequestrarono insieme ad alcuni compagni. Per i suoi genitori, impegnati in ricerche frenetiche e inutili, si accese una speranza circa quindici giorni dopo. Ricevettero una sua telefonata che li rassicurò. Disse loro che era stata arrestata ma stava bene, e che presto sarebbero stati avvisati per andarla a prendere e riportarla a casa. Vera e suo marito capirono soltanto in seguito, confrontandosi con altre famiglie di scomparsi, che si trattava di un diversivo adottato dai militati per prendere tempo e far attenuare il flusso costante di persone che chiedevano notizie dei propri cari nelle caserme e nelle stazioni di polizia. La sorte della ragazza sarebbe rimasta ignota per lunghi anni fino al 2000, quando Marta Alvarez, una superstite dei campi di concentramento del regime, fu in grado di ricostruire i suoi ultimi tragici giorni. La prigionia di Franca era durata pochissimo. Circa un mese dopo l’arresto era stata eliminata insieme ad alcuni compagni per far posto ai nuovi arrivati nelle stanze di tortura. Il suo corpo, come quello di tantissimi altri, era stata buttata giù da un aereo. Dopo quella telefonata rassicurante, i militari l’avevano costretta al cosiddetto “volo”, gettandola ancora viva nell’Oceano, o nell’immenso Rio de La Plata. Un modo tristemente comune, in quegli anni, per sbarazzarsi dei desaparecidos senza lasciare di loro alcuna traccia.

Giorgio Jarach è morto nel 1991, senza avere più notizie di sua figlia. Vera ha continuato per il resto della sua vita un’attività incessante nelle Madri di Plaza de Mayo (la cosiddetta “Linea fundadora” dell’associazione, quella che ha accettato i risarcimenti dello stato considerandoli utili per ottenere verità e giustizia), ma anche nella Fundación Memoria Histórica y Social Argentina, nell’associazione dei familiari dei desaparecidos ebrei e in altre realtà minori. Un lavoro che ha cominciato a dare frutti concreti soprattutto a partire dal 2003, con l’abolizione delle due leggi del “punto finale” e dell’“obbedienza dovuta”, che fino ad allora avevano garantito la sostanziale impunità per gli aguzzini del regime. Il 24 aprile 2008 la Corte d’Assise di Roma ha confermato in appello la condanna all’ergastolo per Jorge Eduardo Acosta, Alfredo Ignacio Astiz, Jorge Raùl Vildoza, Antonio Vanek e Héctor Antonio Febres, i cinque ufficiali della Marina argentina in servizio al tempo della dittatura noti come i torturatori della Esma. Furono tutti riconosciuti colpevoli del sequestro, delle sevizie e della scomparsa di alcune vittime di origine italiana detenute nel famigerato centro di detenzione che aveva sede presso l’Accademia della Marina di Buenos Aires. Un lungo processo concluso con sentenze di condanne in contumacia, ma dal grande valore simbolico, nel corso del quale Vera Vigevani Jarach si è recata più volte a Roma per deporre. L’anziana madre ha sempre sostenuto che la vicenda dei desaparecidos argentini non può non essere considerata anche un capitolo della storia italiana. Sia perché tra le vittime della dittatura ci sono stati centinaia di italiani e di oriundi d’origine italiana. Sia perché la diplomazia italiana dell’epoca è stata per lo più assente e ha giocato dunque un ruolo negativo nella tragedia della dittatura argentina. Finché avrà fiato da spendere, Vera continuerà a impegnarsi per la memoria in tutte le occasioni in cui sarà chiamata a parlare, nelle scuole, nelle università e nelle piazze. Perché la sua storia è la tragica conferma che – come disse Primo Levi - “ciò che è accaduto può ritornare”. E deve continuare a servire come monito.

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