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Willy Brandt (1913 - 1992)

il Cancelliere tedesco che si inginocchiò al Memoriale della Shoah di Varsavia

Era il 7 dicembre del 1970 quando il cancelliere tedesco occidentale Willy Brandt, in visita a Varsavia, si inginocchiò di fronte al monumento dedicato ai resistenti del ghetto di Varsavia. Un gesto, come ricordava lo stesso Brandt, per nulla premeditato: “I miei più stretti collaboratori non erano meno sorpresi dei giornalisti e dei fotografi che erano in piedi accanto a me”. Un giorno, questo, destinato a restare negli annali, a fare la storia. Un uomo, come scriveva all’epoca Hermann Schreiber sullo Spiegel, che pur non essendo religioso scelse una simbologia cristiana per parlare, con tutta la forza di quei secondi trascorsi in silenzio, al mondo; che “confessa una colpa di cui non è responsabile e chiede un perdono di cui lui stesso non ha bisogno. Quindi si inginocchia lì per la Germania”.

Il gesto di Brandt ben riassume la parabola di una intera vita dedicata all’opposizione a ogni forma di violenza, all’odio e all’antisemitismo, promuovendo a molti livelli – nazionale e internazionale – la riconciliazione, l’uguaglianza e la pace. Il cancelliere, che fu educato al socialismo dal nonno materno e portava il nome di nascita di Herbert Ernst Karl Frahm, dopo la guerra aveva fatto suo ufficialmente lo pseudonimo di Willy Brandt che aveva adottato quando, nel 1933, aveva lasciato la Germania per la Norvegia in ragione della sua dissidenza politica. Incaricato di costituire una cellula di opposizione a Oslo, qui continuò la sua battaglia giornalistica e politica a favore della democrazia.

Già nel 1930, aveva denunciato i nefasti effetti dell'odio verso gli ebrei che – come ben aveva compreso – era un aspetto centrale dell'ideologia nazista. L’intensificarsi della persecuzione degli ebrei rientrava continuamente negli articoli e negli altri scritti con cui il giornalista Brandt informava i norvegesi sugli sviluppi del Terzo Reich. Con il massimo disappunto, raccontò la Notte dei Cristalli e le successive misure di repressione da parte dei nazisti contro i cittadini ebrei. Una posizione, la sua, per nulla scontata: anche fra i suoi compagni socialisti, infatti, l’antisemitismo aveva purtroppo messo radici.

Nel 1938 il regime nazista lo espulse e lo privò della cittadinanza, e per questo Brandt fece richiesta di quella norvegese. Scampato miracolosamente a una retata nazista perché in divisa norvegese, dopo la guerra si stabilì prima in Svezia e poi di nuovo in Germania. Qui riacquistò la cittadinanza tedesca. Sindaco di Berlino dal 1957 al 1966, presidente della SPD dal 1964, ottenne la carica di Cancelliere nel 1969, che manterrà fino al 1974. Solo dopo la sua morte, avvenuta nel 1992, si verrà a sapere che aveva contribuito con la maggior parte della somma assegnatagli in occasione del premio Nobel per la pace del 1971 alla ricostruzione della Scuola Grande Tedesca, il più antico luogo di culto ebraico di Venezia.

Per la prima volta, nel novembre 1960 visitò Israele, dove conobbe David Ben-Gurion. Nel 1973 fu il primo cancelliere tedesco in carica a visitare il paese, incontrando Golda Meir, cui lo legava, oltre a una visione politica affine, un profondo rispetto e un’ammirazione personale. Per Brandt, il diritto all'esistenza di Israele era inviolabile, e sin dagli anni Trenta aveva conosciuto e sostenuto il movimento sionista, pur spendendosi – durante il conflitto mediorientale – per una soluzione pacifica che riconoscesse anche i diritti dei palestinesi.

Il coraggio e la visione politica di Brandt non furono sempre recepiti positivamente in patria. Secondo un sondaggio realizzato dallo Spiegel nei giorni successivi, appena il 41% degli intervistati riteneva appropriato il suo gesto a Varsavia, mentre il 48% lo riteneva esagerato o fuori luogo. Poco più di un anno dopo, quel gesto fu usato contro di lui in un voto sfiducia che non passò per solo due voti. Non solo: tante furono le critiche anche per la firma di Brandt, fatta sempre durante quel viaggio, al Trattato di Varsavia, con il quale la Germania abbandonava ogni rivendicazione territoriale nei confronti della Polonia, riconoscendone i confini. L’ammirazione destata all’estero verso quel gesto, che lo portò a ricevere il premio Nobel per la pace nel 1971, non corrispondeva certo a un unanime apprezzamento domestico. La destra gli rimproverava sia la sua Ostpolitik, la politica di distensione nei confronti dell’Est comunista, mentre la sinistra lo accusava di essere troppo vicino agli USA.

Soprattutto pesavano ancora, all’epoca, tantissime resistenze, omertà e complicità nei confronti del passato nazista. Una reale presa di coscienza a livello popolare e diffuso nei confronti della Shoah, come scriveva il filosofo Günther Anders, era allora ancora tutta da costruire. Gli stessi Lager su suolo tedesco, non solo non erano in molti casi visitabili o conosciuti: non rientravano, spesso, neppure nei discorsi di coloro che erano nati e vissuti a poche centinaia di metri da questi luoghi di morte e orrore. La svolta saranno gli anni Ottanta e Novanta, quando la responsabilità tedesca, forte di una nuova generazione e dell’esempio di uomini come Brandt, si farà diffusa e radicata.

Willy Brandt avrebbe potuto evitare, come fanno molti politici privi della sua visione e del suo coraggio, di insistere su un tema delicato come la Shoah, a maggior ragione potendo vantare un passato privo di ombre. Avrebbe potuto guardare ai sondaggi, al suo successo immediato, a eludere attacchi e critiche. L’antisemitismo era ancora assai diffuso nel dopoguerra, anche fra molti dei suoi stessi compagni di partito, mentre l’omertà era quasi totale. Non lo fece.

“Posto di fronte all'abisso della storia tedesca e al peso dei milioni di persone che furono uccise, ho fatto quello che noi uomini facciamo quando le parole ci mancano”, così scriveva il cancelliere tedesco occidentale Willy Brandt nelle sue memorie, ricordando quello storico giorno a Varsavia. Un gesto, il suo, che ispirerà anche l'ex primo ministro giapponese Yukio Hatoyama che, in visita a Seul nel 2015, si mise in ginocchio di fronte a un memoriale per scusarsi con i coreani per il duro trattamento riservato loro durante il dominio coloniale dal Giappone.

Simone Zoppellaro, giornalista

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